di Giorgio De Zorzi
LE ORIGINI
La città di Gorizia è posta all’imbocco delle Valli dell’Isonzo e del Vipacco, nel punto cioè in cui convergono le naturali vie di comunicazione tra oriente e occidente, tra l’Europa centro-orientale e il Mediterraneo. Fin dai tempi preistorici qui passavano delle piste di migrazione e varie popolazioni attraversarono questa zona, attratti dalla fertile pianura Padana, ed anche dal clima mite.
Per quanto riguarda la storia di Gorizia non si hanno notizie sicure fino al secolo XI, ma è molto probabile che il colle, a cui si appoggia la città attuale, dovesse ospitare un insediamento molto antico, risalente forse all’età del ferro. Esso infatti, offriva, per la sua posizione isolata e dominate, una sicurezza maggiore degli altri colli vicini. Probabilmente già nel II millennio a.C., i Veneti, insediatisi nella regione, abitata in precedenza dai Pelasgi, eressero sulla sommità del colle delle fortificazioni difensive, rese necessarie a causa delle scorrerie e invasioni di popoli dilaganti dai valichi alpini verso la pianura. Intono al V sec. a.C. ci fu una consistente invasione di Celti, i quali si stanziarono nel territorio e vi rimasero fino al II secolo a.C., quando furono ricacciati sulle montagne dai Romani, chiamati in aiuto dagli alleati Veneti.
L’avvento della dominazione romana portò nel Goriziano un periodo di pace, sicurezza e floridezza economica, perché il Senato romano creò tutta una organizzazione militare e civile per assicurare la difesa del territorio conquistato. Nacquero cosi la strada Gemina, che collegava l’Italia alla Pannonia, e alla fondazione delle città di Aquileia, Castrum Silicanum (Salcano), Forum Julii (Cividale del Friuli), con molti altri presidi militari e numerosi punti di vedetta e di segnalazione, uno dei quali probabilmente era sul colle di Gorizia.
Con la decadenza dell’Impero, vennero meno anche le condizioni di sicurezza e di prosperità della regione che fu più volte devastata dalle orde barbariche che, attraverso la Porta Liburnica (Sella di Vrata vicino a Fiume) e le valli del Vipacco, raggiungevano l'Italia, incontrando Gorizia sulla propria strada. L’unico lungo periodo di tranquillità si ebbe sotto il dominio dei Longobardi (568-774), seguito però poi dalle nuove terribili invasioni degli Avari, dei Bulgari, degli Ungari.
Durante questi secoli di scorrerie e devastazione, il colle di Gorizia dovette costituire un rifugio sicuro, tanto che alcuni gruppi decisero d’abitarvi stabilmente. Sembra che sulla sommità del colle ci fosse una torre in legno che verso l’VIII sec. fu sostituita con un’altra di pietre squadrate, elevata sul punto più a ponente e protetta da mura e da un fosso. Al mastio primitivo si aggiunsero altre costruzioni, proprie dell'età altomedioevale, tutte allestite secondo accorgimenti atti ad impedire o ritardare la conquista da parte dei nemici.
Su istanza di Ottone Duca di Carinzia, il 28 aprile 1001 a Ravenna, l'imperatore Ottone III di Germania, con un diploma concedeva al Patriarca d’Aquileia Giovanni IV ed alla sua chiesa “una volta devastata dalla crudeltà dei barbari ed ora ridotta a grande necessità” la metà del Castello di Salcano e della “villa che nella lingua degli Slavi e detta Gorizia”, con la metà di tutti i territori e diritti territoriali posti tra l’Isonzo ed il Vipacco, l’Ortona e i gioghi delle Alpi.
La restante metà di Salcano, di Gorizia e delle altre dipendenze, con un documento scritto a Pavia in quello stesso anno, Ottone III la concesse a Warihen, Duca del Friuli, la cui figlia sposò Marquardo di Eppenstein, portando in dote i beni concessi.
Intorno al 1060 compaiono nei documenti quelli che si faranno chiamare conti di Gorizia e, poiché spesso i feudatari di solito prendevano il nome da un castello che costituiva la loro residenza abituale, si può dedurre che il Castello di Gorizia sorse nella prima metà dell'XI secolo e che qui Marquardo di Eppenstein (†1076) abbia trasportato la residenza da Salcano a Gorizia. Tale fatto si inquadra nella trasformazione dei conti di Gorizia da regi governatori in feudatari veri e propri dell’Impero Germanico, divenendo contemporaneamente i più importanti “liberi” del Patriarcato.
Data l’importanza che assumeva la casata, è da pensare che in questo periodo al mastio originario del Castello venisse aggiunto un modesto palazzo. Intanto tutto intorno si sviluppò il Borgo e sempre più numerose vi posero stanza famiglie nobili, che figurano accanto ai conti di Gorizia: gli Attems, i Colloredo, i Dorimbergo, i Formentini, gli Orzone, i Rabatta, i Torriani, i Taxis, gli Ungrispach.
Il territorio di Gorizia si potrebbe dividere in due: quello superiore, dove, intorno alla residenza, sorsero numerose abitazioni, costituendo praticamente il nucleo della futura città; il territorio inferiore, nella pianura, dove c’erano abitazioni sparse.
Ottone III in trono circondato dai notabili dell'impero. Miniatura di un Evangeliario del X secolo conservato presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera.
Miniatura raffigurante Riccardo Cuor di Leone.
I conti di Gorizia
Già in un documento del 1064 viene nominato un Mainardus de Gorizia, mentre in un altro documento rogato a Cividale il 21 maggio 1122, Mainardo I, che fu il primo della famiglia ad avere l’avvocazia di Aquileia, viene chiamato non più avvocato ma conte: era il periodo in cui si stava estinguendo la famiglia degli Eppenstein.
Il 4 dicembre 1122 moriva Enrico III di Eppenstein, duca di Carinzia, ultimo della sua famiglia, rendendo così vacante il feudo. I nuovi signori di Gorizia divennero vassalli della Chiesa d’Aquileia e infeudati della Contea di Carinzia. Mainardo I moriva nel 1146, mentre suo figlio Enrico, che aveva esercitato insieme al padre quei diritti, decedeva prima del 1150. Gli successe il fratello Engelberto II, che per quasi quarant’anni fu l’unico avvocato della Chiesa d’Aquileia. Egli fu un uomo violento e prepotente, che danneggiò pesantemente i beni della Chiesa, maltrattando i contadini che vi lavoravano.
Il Patriarca Pellegrino II indignato per queste continue prepotenze pose un termine a Engelberto per discolparsi di questi eccessi. Engelberto per tutta risposta assalì all’improvviso a mano armata il Patriarca e lo imprigionò nel Castello. Intervennero però Ottocaro V Marchese di Stiria ed altri vassalli della Chiesa Aquileiese che liberarono il Patriarca e costrinsero Engelberto il 21 aprile 1150, presso la selva di Ramusel (Cordovado) a rinnovare il giuramento di fedeltà al Patriarca.
Stemma dei conti di Gorizia.
Nel 1191 morì Engelberto II e gli succedettero i figli Mainardo II e Engelberto III, che già governavano i possedimenti assieme al padre. Mainardo II, nel 1195, seguendo l’esempio dei duchi di Carinzia e d’Austria e d’altri nobili, partì per le Crociate. Rimase in Oriente fino al 1198, Forse egli voleva far penitenza per avere nel novembre 1192 inseguito Riccardo Cuor di Leone, Re d’Inghilterra, giunto naufrago ad Aquileia ed averlo fatto cadere nelle mani di Leopoldo d’Austria nemico personale di Riccardo.
Grazie ai beni che la casata possedeva a Gorizia e nel resto del Friuli (Precenicco, Portolatisana, Belgrado, Codroipo, Goricizza, Gradisca e altri), essi superavano per potenza ogni altro feudatario del Patriarcato. Non aveva invece autorità ministeriale nel Friuli dove unico conte era il Patriarca. Però se furono chiamati conti di Gorizia fu soltanto in grazia della loro contea carinziana. Ecco che a S. Quirino, presso Cormòns, il 27 gennaio 1202, furono solennemente investiti dal patriarca del feudo, con il castello e le sue pertinenze.
Il Duecento
Gorizia cominciò così ad espandersi e incominciarono a fiorire l’artigianato ed il commercio, tanto che nel 1210 ottenne un mercato settimanale. Tuttavia, benché la zona fosse favorevole per lo sviluppo commerciale e artigianale, data la loro politica d’espansione, i feudatari pensarono solo al dominio territoriale e alla loro potenza piuttosto che migliorare le condizioni della popolazione. Quindi l’importanza della città fu esclusivamente militare.
In un documento del I aprile 1249 si parla d’una battaglia di Gorizia e d’una tregua che ne era stata la conseguenza, ma che non era stata osservata. Il Patriarca si era messo in lega con il marchese, d’Este, il conte di S. Bonifacio, con le città di Brescia, Mantova e Ferrara ottenendo aiuto d’armati e collegando la sua azione con la loro, contro Ezzelino III da Romano (aprile-maggio 1249), signore della marca trevigiana detto il Tiranno. L'imperatore Federico II, ormai costretto a ritirarsi dall’Italia meridionale, da Foggia diede autorità a Mainardo III di Gorizia, suo capitano generale in Stiria e in Carniola, d’occupare tutti i beni del Patriarca d’Aquileia e degli altri prelati ribelli all’Impero e d’assegnarli a coloro che intendevano tornare fedeli.
Da ambo le parti si conquistarono castelli e possedimenti. L’8 gennaio 1251 a Cividale, in presenza di molti ecclesiastici e signori, il Patriarca fece pace con Mainardo III di Gorizia e il conte si obbligo a stare ai comandi della Chiesa ed ognuno restituì i beni non suoi.
Mainardo III, cessò d’essere capitano di Stiria alla morte di Federico II. Egli si trovò ben presto impegnato insieme con Alberto III del Tirolo, suo suocero, nella lotta contro Filippo di Carinzia, allora ancora arcivescovo. La lotta terminò il 27 dicembre 1252 con un disastro per i due conti. Mainardo dovette contrarre grossi prestiti e scendere a patti con la Repubblica di Venezia per riparare, lasciando in pegno Portolatisana.
Quando Alberto del Tirolo morì nel 1253, non avendo eredi maschi, Mainardo ne divenne erede, assieme a suo cognato Gherardo di Hirschberg, ma la proprietà rimase indivisa. Mainardo III di Gorizia morì il 22 luglio 1258 lasciando eredi i figli Mainardo IV ed Alberto I. Il 6 ottobre 1259 Mainardo IV come primogenito sposò Elisabetta di Baviera, vedova di Corrado IV Hohenstaufen di Svevia († 1254) e madre del giovane Corradino, portando così, possiamo dire, all’apice la potenza della sua casa in Germania.
Nella “terra inferiore” si ha notizia che nel 1265 fu costruito un convento francescano con una chiesa che, secondo la leggenda, fu voluto da S. Antonio di Padova. Esso sorgeva nell’attuale Piazza Sant’Antonio ed attorno si costruirono abitazioni. Col tempo esse divennero il centro della “terra inferiore”.
Il 3 luglio del 1267 il Patriarca di Aquileia Gregorio di Montelongo chiese ad Alberto I di Gorizia di aiutarlo a reprimere l’insurrezione di Capodistria, che voleva stare con Venezia, offrendo la spartizione dei territori.
Il conte Alberto s’intese segretamente con quei di Capodistria e con alcuni signori friulani: Gian Carlo di Ragogna, Federico di Caporiacco, Ugo di Duino, Detalmo ed Udriguccio di Villalta. Alberto catturò verso Villanova, nei pressi di Rosazzo, il Patriarca mentre stava a letto e, a piedi nudi su di un ronzino, il 20 luglio 1267 lo condusse a Gorizia, imprigionandolo nel Castello.
Il tradimento fece molto scalpore e papa Clemente IV il 12 agosto intervenne subito dicendo al capitolo d’Aquileia che egli stesso si sarebbe occupato della liberazione del Patriarca, cominciando con la scomunica di Alberto I. Intanto il Patriarca per conto suo venne a trattative col conte e il 25 agosto a Gorizia si decise di rimettere ogni decisione sulle loro discordie all’arbitrato di Ottocaro Re di Boemia e di Vladislao arcivescovo di Salisburgo. Il 27 agosto il Patriarca fu liberato dalla prigionia, si ritirò a Cividale e ritornò la pace.
Il sigillo di Gorizia del 1307.
La prima metà del Trecento
Ai primi del Trecento la casata goriziana, pur essendo divisa in due rami: quello di Mainardo IV e di Enrico II, era all’apice della potenza.
Tre figli di Mainardo IV, conte del Tirolo e di Carinzia morirono presto: Alberto (1292), Ludovico (1305) e Ottone (1310). Duca di Carinzia rimase quindi il quartogenito, Enrico, il quale, avendo sposato nel marzo 1306 Anna figlia di Venceslao III Re di Boemia e di Polonia, assunse questo titolo. Ne seguì una diatriba in cui ebbe come antagonista Rodolfo figlio dell’imperatore Alberto I e poi Giovanni di Lussemburgo che divenne infatti sovrano di Boemia. Al Goriziano rimasero solo i titoli che continuò a portare.
Nell’altro ramo, Alberto II il 25 ottobre 1303 divise i beni fra i suoi figli Enrico II e Alberto III che continuarono a portare ambedue il titolo di conti di Gorizia e avvocati delle chiese d’Aquileia, Trento e Bressanone. Alberto II morì poi a Lienz nei primi di settembre del 1304 e il 7 la sua salma fu seppellita a Rosazzo. Capo della famiglia in Friuli rimase così Enrico II, che del resto agiva già con i pieni poteri del genitore.
Nel 1307 il conte Enrico II concesse alla “terra superiore” le libertà comunali e i privilegi cittadini in tale occasione fu inciso un sigillo a cui dobbiamo la prima rappresentazione della città. In esso è impressa l’immagine del Castello con alcune abitazioni a sud e la porta di Salcano con la caratteristica torre quadrata a nord. L’abitato verso la pianura era ancora escluso dai privilegi.
Enrico II, forte del suo potere, fu più volte in guerra sia contro il Patriarca che contro la nobiltà ad esso fedele. Ebbe per lo più la meglio e molto spesso il Patriarca dovette scendere a patti con Enrico. Queste lotte continue, tipiche di tutto il Trecento patriarcale, indebolirono e impoverirono tutta la regione. Nel 1323 morì Enrico II e gli subentrò il figlio Giovanni, ancora minore e sotto tutela dello zio Enrico.
Nel 1329 Enrico Duca di Carinzia quale tutore di Giovanni, nominò Alberto IV di Gorizia capitano della contea di Gorizia a cominciare dal 4 luglio con l’obbligo d’assumersi la difesa di Treviso.
Dopo la morte di Enrico II, durante il governo della di lui moglie Beatrice e del figlio Gianenrico e più tardi sotto Alberto III, Gorizia ebbe nuovi abitanti e siccome intorno al Castello non c’era spazio sufficiente per costruire nuove abitazione e anche per dare una maggior dimensione alla città, alcuni cittadini nobili incominciarono a costruire le loro case in pianura, ai piedi del colle, ad immediato contatto della villa sorta intorno al convento dei francescani, dando così origine alla Piazza Nuova (ora del Duomo) e alla Via Rastello, che è dunque la prima e la più antica via goriziana.
Con la morte di Giovanni Enrico, Alberto IV, che rappresentava anche i fratelli Mainardo ed Enrico, il 21 luglio 1339 chiese ed ottenne l’investitura dal Patriarca Bertrando. Nel 1342 i tre fratelli goriziani avevano diviso i beni: ad Alberto erano toccati quelli dell’Istria e della Marca Venda. Quelli del Friuli, del Carso, della Carinzia e della Pusteria ad Enrico e Mainardo.
La notte del 25 gennaio 1348 un tremendo terremoto danneggiò fortemente Venezia, il Friuli e, in modo ancor più violento, la Carinzia.
Scrive a tale proposito Giovanni Villani: “In prima in Silici (Sacile) la porta di verso il Friuli cadde. In Udine parte del palagio di messer lo Patriarca cadde, e più case, cadde il Castello di S. Daniello in Friuli e morirono più uomini e femmine. Caddero due torri del Castello di Ragogna e iscorsero infino al fiume Tagliamento, cosi nomaro, e moriovi più genti. In Gemona a metà e più delle case sono rovinate e cadute e il campanile della maggior chiesa tutto si fesse e si aperse, e la figura di S. Cristoforo intagliata in pietra viva si fesse tutta per lungo. Per gli quali miracoli e paura i prestatori a usura della detta terra, convertiti a penitenza, feciono bandire che ogni persona che avesse loro dato merito e usura, andasse a loro per essa, e più di otto continuarono di renderla. In Venzone il campanile della terra si fesse nel mezzo e più case rovinarono e il Castello di Tormezzo (Tolmezzo) e quello di Dorestagno e quello di Destrafitto (?) cadono e rovinarono quasi tutti, ove morì molta gente. Il Castello di Lemborgo che era in montagna si sommosse; rovinando fu trasportato per lo tremoto da dieci miglia dal luogo dove era in prima tutto disfatto. Un monte grandissimo dove era la via che conduceva al lago di Orestagno, si fesse e partissi per mezzo con grande rovina, coprendo il detto cammino tutto. E Ragni e Verdone due castelli con più di cinquanta ville che sono sotto il conte di Gorizia intorno al fiume Gieglia (Gail) sono rovinate e coperte da due monti, e quasi vi morirono tutte le genti di quelle parti, che pochi ne scamparono”.
Poi il Villani narra come avvenne il disastro a Villico e continua “Per Carnia più di millecinquecento uomini femmine e fanciulli furono trovati morti per gli tremoti; e tutte le chiese e case della Carnia sono cadute e il monastero di Oscalecche (Ossiach?) e quello di Velchiera: quasi tutti morirono e rimanenti tutti sbigottiti e quasi fuori di testa”. Il Villani nulla dice della Chiesa d’Aquileia che fu pure diroccata, però le fondamenta rimasero salde e di Gorizia che ebbe numerosi danni. La descrizione, che è tratta dal libro XII cap. 123-124, deriva, come egli stesso ci conferma, da una lettera scritta da Udine, nel febbraio successivo da mercanti fiorentini abitanti in Friuli, e probabilmente non seppe leggere bene i nomi.
Dopo il terremoto giunse anche qui la terribile pandemia della Peste Nera che afflisse gran parte dell’Europa. Il contagio era stato portato dall'Asia centrale, dove ebbe origine, in Crimea, dall'Orda d'Oro mongola, che all'epoca assediava Caffa, stazione commerciale genovese. Tramite i porti e la rete commerciale aveva raggiunto anche l'Italia a Messina e Genova. L'epidemia terminò nel febbraio 1349. Da questo terribile avvenimento anche Gorizia fu fortemente toccata.
Il 19 giugno 1352 il conte Alberto si presentò a Udine dal nuovo Patriarca, Nicolò di Lussemburgo e chiese a nome dei fratelli, l’investitura dei feudi che la sua famiglia aveva dalla Chiesa d’Aquileia. Il Patriarca, ricevuto il giuramento di fedeltà, la concesse.
Ritratti del vescovo Ottobuono de' Razzi (a sinistra) e del vescovo Pagano della Torre (a destra), futuri patriarchi di Aquileia, opera di Bartolomeo Montagna. Padova, Palazzo Vescovile. (Foto Wikipedia).
Le guerre del Conte Enrico II
Il Patriarca Ottobono de' Razzi, dopo il Concilio di Vienne del 1311-12 ritornò in Friuli il I ottobre 1313. Il conte Enrico II di Gorizia, continuava ancora a tenere l’ufficio di capitano generale e ad occupare i castelli Patriarcali di Laas, Adelsberg, ed in Friuli quelli di Sacile, Caneva, Monfalcone, Tricesimo, Artegna, della Chiusa, Tolmezzo, Fagagna, S. Vito. Per liberasi del vassallo goriziano, ormai troppo potente, Ottobono fece alleanza con Treviso, Padova e il Duca d’Austria il quale promise d’inviare le sue schiere a Tolmino, comandate dal vescovo di Gurk.
Intanto Enrico II ebbe la cittadinanza veneziana, e Fulcherio di Flassemberg, suo procuratore, il 3 settembre 1313 prestò a Venezia giuramento di fedeltà e d’ubbidienza. Il conte, si era alleato a Cangrande della Scala signore di Verona e vicario imperiale. D’accordo con Corrado di Auffenstein ed il signore di Walsee, prese a guerreggiare contro Treviso e Padova, battendo l’esercito delle due città presso Montagnana nel luglio 1313.
Le schiere del conte erano formate da mercenari tedeschi; non trovandosi però d’accordo con Cangrande per lo scarso pagamento per le sue truppe, se ne tornò a Gorizia e prese a guerreggiare contro il Patriarca. Il 13 settembre 1313 assediò il castello di Tolmino, che prese per fame il 6 ottobre. Il 30 settembre il Patriarca chiese invano aiuto a Treviso e Padova sue alleate.
Ma arrivò invece Enrico che improvvisamente attaccò Udine. Egli voleva vendicarsi con i suoi nemici maggiori che vivevano nella città, e che avevano spinto il Patriarca contro di lui. Prese prigionieri, raziando e saccheggiando i dintorni, ma Udine resistette. Poi, con l’aiuto di bande slave comandate dal cognato, Giovanni Babanic, si diresse a nord prendendo il castello di Gemona, il 2 novembre quello di Pers e quindi quello di Susans, difeso dai di Prampero.
Assediò il Castello di Buia difeso dalle milizie veneziane ed interruppe il canale che portava l’acqua alla città di Udine per poterla conquistare più facilmente. Il Patriarca visto che gli alleati non intervenivano trattò la pace con Enrico II. Il 25 novembre 1313 lo fece capitano generale del Friuli, dal 2 febbraio del 1314 per sei anni, lasciandogli tutti i proventi e giurisdizioni del Patriarcato, per ricevere da lui 2.400 marche in quell’anno e poi 4.000 marche ogni anno.
Il 25 maggio 1315 si costituì una lega contro Enrico e vi parteciparono gli Udinesi, i Gemonesi, i di Villalta, Federico di Susans, i di Colloredo, Artegna, Buia e Odorico di Cuccana, che fu fatto capitano di Udine, mentre Artico di Prampero fu fatto capitano di Gemona. In quello stesso giorno Artico occupò Artegna e Buja, presidiate dal conte; gli abitatori di San Daniele e Fagagna si assunsero la custodia.
Il conte Enrico non perse tempo e a capo d’un esercito d’oltre 500 armati si diresse a Gemona, ma non riuscendo a prendere il Castello saccheggio ferocemente le campagne. Raggiunse poi Susans, che conquistò il 19 giugno, mentre il 25 prese Colloredo, facendo poi distruggere entrambi i manieri. Il 18 luglio cadde Mels che fu restituita al conte Buja. Il 24 luglio si arrese Moruzzo mentre Villalta assediata riuscì a resistere.
Al principio d’agosto Enrico volse verso Reana e Zompitta, rompendo le rogge per togliere l’acqua a Udine. Il 13 devastò Orsaria e dintorni, mentre gli udinesi rimisero l’acqua nei loro canali. Finalmente il 29 agosto si fece pace in questa inutile guerra: ad ognuno fu restituito quanto aveva posseduto però tutti dovettero riconoscere il conte come capitano generale e vicedomino come soprintendente all’amministrazione della giustizia.
Il 7 agosto 1316 fu eletto papa Giovanni XXII ed il 2 settembre il Parlamento friulano presieduto dal conte di Gorizia inviò messi al papa per invitarlo a provvedere al buono stato del Friuli ed il papa nominò il 31 dicembre Patriarca Gastone della Torre, arcivescovo di Milano. Il conte Enrico intendeva far valere le sue forze per allargare le sue fortune nella Marca Trevigiana.
Ritratto settecentesco di Cangrande I della Scala (Foto Wikipedia)
Enrico, con Guecello da Camino il 19 ottobre 1316 si trovava a Verona, alleato con Cangrande della Scala, nella lotta delle città ghibelline contro quelle guelfe e il 20 dicembre 1317 con 200 soldati ed altri uomini d’arme scese per Feltre e Vicenza, in aiuto di Cangrande verso Monselice (che fu presa perchè dei congiurati aprirono le porte), supportando poi nella campagna da questi condotta in quell’inverno contro Padova.
In quel periodo Rinaldo, fratello del Patriarca Gastone della Torre si metteva dalla parte dei Padovani e pensava ad uno sforzo comune contro i comuni nemici. Enrico, ritenendosi sempre capitano generale in Friuli tenne un Parlamento presso la villa di S. Giovanni di Manzano il 6 settembre 1318, ma essendo troppo affaccendato in altre imprese, non ebbe tempo d’occuparsi del Friuli.
Il 1 ottobre 1318 Cangrande della Scala insieme con Uguccione della Faggiuola muoveva contro Treviso, nella speranza d’assoggettare questo importante luogo della Marca. Treviso ricorse allora a duca d’Austria Federico I d'Asburgo, il quale nominò il conte Enrico suo vicario. Questi, coi suoi mercenari tedeschi, il 20 giugno 1319 entrò a Treviso e lo scaligero pensò di far pace col conte e di lasciare tranquilla la città.
Cangrande che si professava vicario di Federico d’Austria per Verona e Vicenza, attaccò ancora Padova. Questa si rivolse ad Enrico II che accettò d’entrarvi come vicario di Federico d’Austria il 4 novembre 1319. Il 10 dello stesso mese egli tentò anche di sconfiggere Cangrande, ma il colpo non gli riuscì ed allora inviò verso Padova un esercito di Ungari, Slavi e Tedeschi di circa 10.000 uomini. Intanto giunse Ulrico di Walsee, milite del Duca d’Austria, per mettere pace fra Cangrande e il conte Enrico e prese egli stesso la signoria di Padova a nome del Duca il 5 gennaio 1320.
La guerra fra Enrico e Cangrande continuò finché nel gennaio-febbraio 1321 fu fatta pace. A Enrico restò la signoria di Treviso mente il I° novembre 1321 entrava a Padova Corrado di Auffenstein in nome del Duca di Carinzia.
Il conte Enrico II morì a Treviso improvvisamente il 24 aprile 1323 dopo una festa. Conservò la signoria della città Beatrice di Baviera, sua seconda moglie, a nome del figlio Giovanni Enrico che aveva appena pochi mesi. Il tutore ufficiale di questo bambino fu Enrico di Carinzia figlio di Mainardo di Gorizia.
La seconda metà del Trecento
Verso la metà del XIV secolo si costruì la Curia Civile, nella Piazza Nuova e per proteggerla contro le guerre e le incursioni dei nemici si decise di scavare una grande fossa, che scaricava le acque nel torrente Corno, attorno all'abitato, recingendolo poi con delle mura che si appoggiavano ai due capi estremi dei baluardi del Castello.
La fossa cominciava dai giardini di palazzo Strassoldo, in Piazza Sant’Antonio, tagliava poi per Via Rabatta, pressappoco dove oggi e aperta la strada che congiunge questa via con quella del Duomo, attraversava l’orto dell’ex Convento delle Orsoline, raggiungeva Via Morelli e poi Piazza della Vittoria, all’imbocco di Via Rastello. Entro quest’area Gorizia visse per oltre 500 anni.
I conti Goriziani conducevano in genere vita splendida. In Castello si svolsero magnifiche feste, in onore di amici o per l’accoglienza di personaggi illustri. Fra quelli che transitarono in quest’epoca a Gorizia vanno ricordati Re Luigi I il Grande d’Ungheria (1356) a capo d’un poderoso esercito che muoveva contro Venezia; Rodolfo e Federico duchi d’Austria con 4000 soldati di cavalleria, al tempo della guerra contro il Patriarca d’Aquileia (1360).
Circa nel 1365, nella pianura intorno alla “Piazza Nuova” era sorta la prima cappella dedicata a S. Caterina e S. Leonardo, dalla quale sì era poi sviluppata la chiesa parrocchiale dei Ss. Ilario e Taziano, protettori della città. I conti avevano favorito l’erezione del tempio con incoraggianti oblazioni ed i nobili, che avevano preso stabile dimora ai piedi del colle, offersero a gara il loro aiuto pecuniario, come pure i cittadini benestanti.
Il 3 gennaio 1363 morì giovanissimo a Castel Tirolo, Mainardo, figlio di Margherita Maultasche e del suo secondo marito Ludovico V di Baviera, erede della contea del Tirolo. Rodolfo d’Austria immediatamente entrava nel Tirolo, che nel settembre gli fu legalmente consegnato da Margherita, ma in tal modo, questo importante feudo della famiglia goriziana, veniva sottratto all’altro ramo superstite per ingrandire la potenza asburgica. I Goriziani non furono d’accordo ma Alberto IV vi rinunciò il 6 giugno 1364.
I conti di Gorizia rimasti estranei alle vicende che mettevano Venezia contro gli Asburgo, cercarono di legarsi con un’alleanza sempre più stretta alla casa d’Austria. Il conte Mainardo VII il 13 ottobre 1370 a Vienna confermò la rinuncia, almeno formalmente, ai diritti sul Tirolo a favore degli Asburgo e concluse con il Duca Leopoldo una lega offensiva e difensiva diretta contro Venezia.
Morto nel 1374 Alberto IV di Gorizia, i suoi possedimenti nell’Istria: Pedana, Pisino, Bellai e Castelnuovo, e quelli della Carniola e della Marca Venda, nella Metlica, passarono ad Alberto e Leopoldo d’Asburgo.
Giovanna figlia di Mainardo VII, già promessa sposa nel 1361 a Leopoldo III d’Austria, si era maritata invece nel 1372 con Giovanni I Duca di Baviera. Morto Mainardo VII nel 1385, gli successero i figli Enrico IV e Gian Mainardo, ancora minorenni sotto la tutela del vescovo di Gurk.
Nell’aprile del 1386 i due conti fecero la divisione dei beni col Bavarese. Ai due fratelli toccarono Gorizia, Lienz, Sanktmichelsburg e Falz con i feudi ed ogni altro diritto, due parti di Cormòns, poi Horsperch, Rasburgo, Swarzenich e Horemberg (Prebacina) sul Carso, due parti del garrito e di tutti i beni di Castelluto, Belgrado e Portolatisana.
Al Duca toccarono la terza parte di Cormòns, i castelli di Reifemberg e S. Daniele del Carso, la altra parte di Castelluto che era del conte Mainardo, la terza parte del garrito e dei beni di Castelluto, Belgrado e Portolatisana. Non si trattò a proposito dei beni in Germania. Nel 1394 fu rinnovato fra gli Asburgo e i Goriziani il patto d’alleanza e il 24 giugno 1394 Enrico IV di Gorizia divenne maggiorenne.
Albrecht Dürer: l'imperatore Sigismondo. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum, 1512. (Foto Wikipedia)
Stemma di Ludovico di Teck su denaro patriarcale (coll. privata). (Foto da www.dizionariobiograficodeifriulani.it)
Il Tramonto del Patriarcato
Nel 1411 scoppiò una guerra tra re Sigismondo d’Ungheria che voleva uno sbocco al mare e Venezia che cercava il controllo dei passi alpini. Entrambi i contentendi misero gli occhi sul Patriarcato, indebolito da lunghe lotte interne e ormai non più punto di equilibrio tra il potere papale e quello imperiale.
Così, truppe ungheresi guidate da Filippo Scolari invasero il Friuli e i conti di Gorizia gli appoggiarono.
Venezia rispose con le sue truppe, con in capo Carlo I Malatesta, che saccheggiariono molti i castelli vicini agli imperiali. Il conflitto si concluse nell'aprile del 1413 con una tregua di cinque anni.
Il conte di Gorizia aveva sempre riconosciuto Gorizia come feudo Patriarcale, ma re Sigismondo d’Ungheria il 2 luglio 1415, usurpando un diritto della Chiesa d’Aquileia, da Costanza fece l’investitura feudale ad Enrico IV e a suo fratello Gian Mainardo, della contea di Gorizia, del Palatinato di Carinzia, del garrito (un tribunale) di Flambro in Friuli e la contea di Heunburg con tutte le pertinenze. Questo generò un’enorme tensione tra il Patriarca e i conti di Gorizia.
Scaduta la tregua quinquennale con Sigismondo, nel luglio 1418 Venezia prese ai suoi servizi il conte Filippo Arcelli da Piacenza e lo inviò, alla testa delle sue truppe, contro il Friuli. Il Patriarca Ludovico III di Teck, accortosi che le mire di Venezia erano la conquista del Patriarcato, inviò un messo per chiedere un salvacondotto per gli ambasciatori, e si tenne sulle difensive. Ma l’Arcelli avanzava e nel settembre conquistò Pordenone, Porcia, Brugnera, solo Sacile e Prata resistettero. Venezia non dette ascolto agli ambasciatori più volte inviati e il 4 luglio 1419 il Patriarca decise d’affidare alle armi la sorte del Patriarcato.
Un tradimento che fece grande scalpore e che indebolì molto il Patriarcato, fu quando Cividale l’11 luglio si accordò segretamente, per mezzo dei suoi rappresentanti, con Venezia in cambio del ripristino del suo ruolo passato: essere la prima città del Patriarcato. In cambio si impegnò a sostenere le truppe veneziane.
Venezia proseguì nell’impresa contro il Friuli prese Sacile il 14 agosto dopo un assedio. Il 21 i Porcia trattarono per il loro Castello di Porcia, mentre Aviano fu preso e bruciato perché non servisse da asilo agli Ungari. Il 23 si arrese Caneva, Cordignano e i luoghi vicini.
Il Patriarca impaurito decise di recarsi in Ungheria personalmente a chiedere soccorsi che ogni giorno diventavano più urgenti. Venezia intanto, avendo timore dell’entrata degli Ungari, mandò a Udine un messo per portare un salvacondotto per le trattative di pace ma il Patriarca era assente ed allora i veneziani si prepararono per difendersi.
Il Patriarca Lodovico ritornò con 6000 soldati e, accompagnato dal conte Enrico di Gorizia e da Nicolò di Prata, il 25 novembre pose campo a Bottenicco coll’intenzione di prendere Cividale. I Cividalesi erano aiutati dai veneziani comandati da Taddeo d’Este. Per quindici giorni con bombarde e scale gli uomini del Patriarca tentarono di prendere la città anelando al saccheggio, ma furono respinti.
Poi il freddo, la neve e lo scoramento costrinse questi mercenari a ritirarsi. Parte riparò a Udine e parte tornò in Ungheria. Il conte di Gorizia fu fatto prigioniero e dovette più tardi pagare il riscatto a Taddeo d’Este.
All’inizio del 1420, le truppe veneziane condotte dall’Arcelli, ripresero la loro azione. Il 14 marzo sottomettevano Feltre, il 24 aprile Belluno, il 10 maggio fu presa l’abbazia di Sesto, il 12 si arrese Portogruaro e nei giorni seguenti furono sottomessi S. Vito e Cordovado, il 19 maggio si sottomisero gli Strassoldo, il 26 i di Prampero, i Valvason, gli Spilimbergo e il 3 giugno si piegò anche Maniago.
Il 30, maggio Enrico e Gian Mainardo scesero a patti con Venezia, rompendo ogni vincolo con l’imperatore Sigismondo e mettendo in pegno il Castello di Belgrado con le sue pertinenze, finché non si facesse pace tra Venezia e l’imperatore.
Il 19 luglio 1420 le truppe veneziane comandate dal luogotenente Morosini entrarono a Udine, dichiarando politicamente e simbolicamente la fine del potere temporale patriarcale.
Ritratto del doge francesco Foscari eseguito da Lazzaro Bastiani. (Foto Wikipedia)
Il governo Veneziano
L’autorità del luogotenente non si estendeva sugli stati e sulla persona del conte di Gorizia. Al conte Enrico Venezia restituì Gorizia ed il resto del territorio obbligandolo a ricevere l’investitura che fu celebrata solennemente il 1° novembre 1424 in piazza San Marco a Venezia secondo le antiche forme.
Il conte si presentò dinanzi al doge Francesco Foscari: uno dei suoi militi portava il gonfalone della contea, un secondo il bastone, mentre altri le banderuole. Il doge investi lui e suo fratello con il bastone mentre si abbassavano le banderuole ed il conte Enrico prestò il solito giuramento di fedeltà.
Questa solenne cerimonia si ripeté a Venezia quando, morto il conte Enrico, si presento al doge Francesco Foscari suo figlio Giovanni a nome anche dei fratelli Lodovico e Leonardo ed ebbe l’investitura. Morti i fratelli Lodovico (1456) e Giovanni (1462), Leonardo rimase unico conte sino alla morte.
Nel 1446 per la paura delle incursione turche, fu innalzata una muraglia che arrivava alla fino della contrada del Rastrello, rinforzata da un fossato denominato “Grapa”. Nel 1450 si eresse quella che partendo dalla torre circolare raggiungeva il Castello. Altri lavori di rafforzamento furono eseguiti nel 1462 e 1470. Infine il Castello di Gorizia fu reso capace di resistere alle più potenti artiglierie.
La parte bassa di Gorizia fino al 1455 pagava un tributo di 14 marchi al conte. Questa zona era governata da un “Gastaldo del paese” eletto dalle famiglie nobili che avevano le case ai piedi del colle, tra cui ricordiamo gli Orzone, i della Torre, i Lantieri, i Coronini, i Cobenzl, i Grabizio, gli Strassoldo, i Mels, i Pace, i Tersi, i Formentini, i del Mestri, i Degrazia, i Gorizzutti, i Petazzi, i Morelli.
Questa parte della città era indipendente rispetto al governo della cittadella, la quale era retta pure da un Gastaldo, che per gli affari giudiziari era sottoposto la Capitano di Gorizia e del Carso, il quale dettava legge in nome del conte sovrano. Quando la città alta e la città bassa si fusero in un unico centro abitato, cessarono le funzione del “Gastaldo di paese”, con la giurisdizione unica del Gastaldo che risedeva in Castello.
Sulla fine del ‘400 sorse il primo ospedale intitolato a Santa Maria, grazie alle munifiche donazioni dei conti e dei nobili, i quali volevano dar lustro alla città sull’esempio di Udine e Cividale, le quali sotto l’impulso di Venezia e dei patriarchi erano divenute centri di notevole progresso civile, di floridezza economica e di evoluzione culturale.
Gorizia incominciava ad avviare i suoi commerci, aprendo fondaci e botteghe, organizzando corporazioni d’arti e mestieri, per concessione dei conti che volevano attrarre nella loro città non solo gli abitanti dei dintorni ma anche i sudditi d’altri paesi. Stava iniziando così un periodo di benessere. Ma, dopo la metà del secolo, iniziò a farsi prossima una minaccia che dilagava in Europa: i Turchi.
Federico III d'Asburgo in un ritratto attribuito ad Hans Burgkmair, conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. (Foto Wikipedia)
Stemma di Carlo da Montone Fortebracci.
Le invasioni turche
I primi movimenti dei Turchi sui confini ebbero inizio tra il luglio e il settembre 1469. Ciò indusse i Veneziani a fortificare Fogliano e ad erigere la fortezza di Gradisca, in territorio appartenente ai conti di Gorizia e nonostante le loro reiterate proteste. Questi avvenimenti ritardarono lo sviluppo della città. Anzi segnarono una stasi se non un regresso, perché tutti gli sforzi e tutte le energie economiche si dovevano concentrare alla difesa delle mura cittadine, contro le quali vennero a infrangersi i non troppo impetuosi assalti dei Turchi, contrastati dalle truppe di San Marco, le quali facevano una guerra senza quartiere agli invasori, ogni volta che si presentavano sull’Isonzo o nel Carso.
Il 3 gennaio 1473 il conte Leonardo di Gorizia, protestava a Venezia per la fortezza che si stava costruendo a Gradisca, sostenendo che il terreno era suo e nessuno ne poteva disporre. Ma Venezia non gli dette retta ed oltre a Gradisca e Fogliano, fortificò anche la Mainizza, facendo poi scavare una trincea munita, con pali e bastioni, dal ponte di Gorizia, presso Lucinico fino a Gradisca.
Quando l’Imperatore Federico III d'Asburgo fece pace con i Turchi promettendo di non interferire nelle loro imprese contro il Friuli, anche Leonardo si mostrò favorevole agli invasori, i quali ne approfittarono subito. Il 29 ottobre 1477 guidati da Iskanderbeg Michaloghli, Pascià della Bosnia (di origini genovesi), si presentarono con 10.000 cavalieri sull’Isonzo. Nella notte la trincea che era munita di pali e tavoloni fu da loro tagliata e rotta con le scimitarre e mannaie da sella.
Presso la fortezza di Gradisca, comandata da Carlo da Montone detto Fortebracci, si ferma l’avanzata turca. Nello stesso tempo però alcune truppe turche grazie alla neutralità e forse anche il favore del conte Leonardo, riuscirono ad impadronirsi del ponte di Gorizia presso Lucinico. Il conte Girolamo Novello che continuava a combattere contro coloro che avevano tagliato la trincee, fu assalito alle spalle da quelli che avevano passato il ponte e ucciso assieme al figlio Giovanni e ai suoi militari. Molti furono i prigionieri, anche perché Giorgio Martinengo che comandava la riserva si era dato alla fuga.
Rotta ogni difesa il I novembre essi potevano gettarsi indisturbati sul Friuli, “brusando la Patria per tutto” come sta scritto in un’iscrizione nella chiesa di Tricesimo (un’altra iscrizione di questo fatto sta incisa nei mattoni della chiesa di Pravisdomini: “1477 li Turchi corsero il Friuli”. Alcune delle loro schiere riuscirono a raggiungere il Livenza e anche il Piave, spargendo il terrore fra quelle popolazioni.
Subito però si ritirarono, ripassarono l’Isonzo tornandosene verso la Bosnia contenti della preda e dei prigionieri fatti. Udine, Cividale ed i luoghi con mura come Pordenone erano rimasti immuni dal loro passaggio. Venezia dolorosamente sorpresa del disastro toccato al Friuli, provvide subito mandandovi nuove truppe e degli ingegneri per fortificare i passi più importanti.
Queste misure non furono superflue. Infatti nella primavera e nell’estate 1478 un forte gruppo di bande turche discesero verso l’Isonzo. Le truppe veneziane comandate da Fortebraccio si difesero a lungo nei fortilizi ricostruiti ed attaccarono i Turchi con opportune sortite. Questi, non riuscendo a forzare quelle difese risalirono l’Isonzo fino a Caporetto e superata con grandi sforzi alla chiusa di Plezzo invasero la Carinzia giungendo fino a Pontebba ed alla testata della Valle d’Incaroio, devastando e distruggendo ogni cosa con incredibile crudeltà, finché per la Carniola ritornarono da dove erano venuti. Venezia si vide costretta a negoziare una tregua ventennale con i Turchi che firmò il 25 gennaio 1479, assoggettandosi ad un tributo annuo di 10.000 ducati per poter commerciare nei territori ottomani.
Per fronteggiare meglio gli attacchi dall’occidente a Gorizia nel 1485, si diede inizio alla costruzione della Torre dell’Isonzo (anche detta Torre del Ponte, Torre Yniz) sulla destra del fiume. Fu portata a compimento nel 1496. Verso la metà del 1499, si aveva sentore che in Bosnia si stava preparando una nuova impresa. Tuttavia in Friuli prevaleva l’ottimismo, perciò le disposizioni di bruciare i fieni e di raccogliere in luogo sicuro le vettovaglie in modo che i Turchi non si potessero rifornire, furono disattese dai contadini.
Venezia fece venire a Gradisca dalla Lombardia Paolo Orsini con 600 cavalli. Il 28 settembre, i Turchi, guidati ancora da Iskanderbeg passarono l’Isonzo e posero il campo a cinque miglia da Gradisca verso Udine, il 29 erano a Rivolto e la notte passavano il Tagliamento tenendosi nel basso Friuli e dirigendosi a Porto Buffolè.
Andrea Zancani, che era il provveditore generale in Friuli si chiuse nella fortezza di Gradisca. Con i suoi 550 stradiotti avrebbe potuto attaccare le schiere nemiche, ma i condottieri, e particolarmente l’Orsini, stimando che i Turchi fossero assai più numerosi, non si mossero. Perfino da Treviso, che si era fortificata, si potevano vedere gli accampamenti dei Turchi, i quali non trovando resistenza, raziarono molti paesi della bassa friulana e del Veneto.
La notte del 3 al 4 ottobre riattraversarono il Tagliamento a Valvasone e, poiché il fiume era molto grosso per le piogge, sgozzarono buona parte dei prigionieri, specialmente gli uomini e le donne anziane e si portarono dietro solo i più giovani, soprattutto fanciulli sotto i quattordici anni. Tuttavia molti Turchi perirono affogati nei gorghi insidiosi del fiume.
Ritornarono verso oriente divisi in due schiere. Sappiamo che bruciarono la villa e la cortina di Pantianicco, vi uccisero gli abitanti e danneggiarono tutti i luoghi vicini. Bruciarono tutte le abitazioni e le stalle di Mortegliano, dove vi uccisero ventinove uomini e una donna, anche se la maggior parte degli abitanti si rifugiò nella cortina e da lì sostenne l’assalto del nemico tutto il giorno 4 e il seguente.
I Turchi il 5 ottobre raggiunti coloro che avevano lasciato sull’Isonzo lo passarono nella nottata ed attraverso l’Istria rientrarono nel loro paese. Dei prigionieri molti riuscirono a fuggire, altri perirono per via, altri poterono essere riscattati. Questa fu l'ultima delle loro incursioni in Friuli.
Il conte Leonardo di Gorizia (1440 – Lienz, 12 aprile 1500). (Foto Wikipedia)
Ritratto di Bartolomeo d'Alviano, olio su tela di Cristoforo Papi detto l'Altissimo (Firenze, Galleria degli Uffizi). (Foto www.dizionariobiograficodeifriulani.it)
Gorizia tra Venezia e gli Asburgo
Una svolta decisiva nella storia della città, si ebbe quando morì, senza eredi, il conte Leonardo, il 12 aprile 1500. Già un secolo prima e precisamente nel 1394 si era convenuto, tra i conti di Gorizia e i duchi d’Austria, che se una delle due case si fosse estinta, i suoi possedimenti sarebbero passati all’altra.
Questo patto era stato più volte confermato e da ultimo nel 1490 dallo stesso Leonardo. Alla sua morte dunque Massimiliano d’Austria discendente dell’Imperatore Alberto e di Elisabetta, figlia di Mainardo IV di Gorizia, prese possesso della contea, anche prevenendo i Veneziani che la reclamavano i, qualità d’eredi del Patriarcato d’Aquileia.
Nella sua “Storia Goriziana” il Czoernig ci spiega che i conti si riconoscevano vassalli di Venezia soltanto per i feudi del Friuli, fino all’Isonzo e non per il territorio della contea di Gorizia situato oltre il fiume, mentre per Venezia il vassallaggio dei Goriziani era tutto il loro dominio, in quanto esso era stato conferito dai Patriarchi aquileiesi ai quali, nel 1420 si era sostituta la Repubblica di Venezia.
Il residente veneto della corte imperiale sostenne difatti questo punto di vista, protestando contro l’occupazione della contea Goriziana da parte dei commissari imperiali. Massimiliano però non prestò orecchio alle richieste del Senato veneto e questo aumentò la naturale rivalità tra le due potenze, spingendole rapidamente al conflitto.
Carlo Luigi Bozzi nel suo libro “Gorizia, un breve saggio di storia Goriziana” scrive che: “[...] l’occupazione ingiusta fu fonte continua di sanguinose discordie e di insanabili dissidi, di implacabili odi e di insidie tremende fra l’elemento italiano rappresentato egregiamente nel mondo dalla Repubblica di San Marco e il teutonico sostenuto alle porte d’Italia dagli imperatori e dagli arciduchi asburghesi, che vollero ad ogni costo mantenere fermo il piede in Friuli, dividendo nettamente il paese in due parti, mentre esso come nessun altro paese dalla natura ha ricevuto l’impronta incancellabile e inconfondibile dell’unità e, anzi dell’identità geografica etnica e linguistica”.
Gorizia già nel ‘400 aveva una fisionomia prettamente italiana, per lingua, usi e costumi, che erano identici a quelli delle altre città friulane, e per il sistema di governo, che era quello stesso in vigore dalla costituzione della Patria del Friuli, con qualche leggera modifica dovuta alle esigenze d’un luogo soggetto a un principe straniero.
L’elemento cittadino e la parte principale della nobiltà goriziana era italiana. tanto che gli arciduchi d’Austria raccomandavano caldamente, più volte, nelle loro ordinanze, agli Stati Provinciali e ai Capitani di non lasciar cadere in disuso la parlata tedesca in Gorizia, parlata che già allora, nell’uso comune, era in accentuata decadenza mentre la lingua italiana e soprattutto quella friulana segnavano un’invidiabile ascesa.
Venezia desiderosa di conquistare le terre al di là dell’Isonzo per controllare i confini orientali non aspettava che un’occasione per dichiarare guerra. Questa si presentò quando invitato dal papa Giulio II, l’imperatore, volendo recarsi a Roma per l’incoronazione, chiese al Senato veneto il consenso di passare armato nel territorio della Repubblica. Quando su istanza, soprattutto di Andrea Gritti, tale consenso gli fu negato, Massimiliano si ritenne offeso e chiese ai principi dell’impero aiuti militari per muovere guerra a Venezia.
Quando scoppiò la guerra, nel 1508, nel Castello di Gorizia vi erano 800 uomini al comando di Andrea di Liechtenstein e di Giovanni d’Auersperg con un presidio anche nella Torre del Ponte. Il conflitto nel suo complesso si protrasse per oltre un decennio, interrotto da alcune tregue, per riaccendersi poi nuovamente in impetuosi scontri. Esso danneggiò non poco il Friuli, attraversato in ogni senso dagli Imperiali e dai Veneziani.
I tedeschi occuparono il Cadore, ma vi accorse prontamente Bartolomeo d’Alviano, che riuscì ad accerchiare le milizie germaniche e sconfiggerle il 2 marzo 1508 presso Pieve. L’Alviano passando per Serravalle e Conegliano entrò a Sacile il 13 marzo. Mentre Castelnuovo e Belgrado, antichi possedimenti goriziani, si arrendevano a Venezia, egli s’impadronì della chiusa di Plezzo ed espugnò, saccheggiandolo, il Castello di Cormòns (16 aprile 1508). Poi, valicando l’Isonzo, investì da due lati Gorizia, s’impadronì prima della Torre del Ponte (14 aprile) e poi entrò in città, dove mise l’assedio ed espugnò la Cittadella e da ultimo accerchiò il Castello.
Il capitano imperiale Andrea di Liechtenstein non potendo resistere si arrese il 22 aprile. Scrive il Guicciardini: “I Veneziani avuto il Castello, vi fecero subito molte fortificazioni perché fosse come un propugnacolo o un freno ai barbari a spaventarli a passare l’Isonzo”. Oltre a Gorizia, i Veneziani fortificarono anche le chiuse di Plezzo.
Successivamente l’Alviano, con l’aiuto delle galee di Girolamo Contarini, s’impadronì di Duino, di Trieste e di Fiume. Quindi occupò la contea d’Istria e parte della Carsia, dove furono fortificati i castelli di Vipacco, Pren, Senosecchia ed altri. In premio a questa fortunata impresa, l’Alviano fu iscritto alla nobiltà veneziana e il 15 luglio fu investito del Castello e della terra di Pordenone, tolti al dominio austriaco.
L’opera più importante dei veneziani a Gorizia fu la subitanea fortificazione del Castello, con la massiccia cinta muraria che racchiudeva tutta la “terra superiore” e che doveva essere atta a resistere ai bombardamenti d’artiglieria. Notevoli furono anche le modifiche all’interno della cinta: furono demolite le torri medioevali ed erette alcune costruzioni di raccordo tra gli edifici preesistesti, soprattutto tra il palazzo dei conti e quello degli Stati Provinciali (organo amministrativo autonomo della contea).
Sia il Castello che la cinta muraria, a forma di pentagono irregolare con 4 torri sporgenti agli angoli, assunsero allora l’aspetto inconfondibile che vediamo oggi e che li rende elemento caratteristico del paesaggio. Una tregua di tre anni fu conclusa l’11 giugno 1508 fra Massimiliano d’Austria e Venezia.
La lega di Cambrai
La tregua tra Massimiliano d’Austria e Venezia non impedì che si scatenasse contro la Repubblica, per questo grande successo, le gelosia della Francia, quelle del Re di Spagna, del Regno di Napoli, di alcuni principi italiani e di papa Giulio II, che intendeva recuperare le città della Romagna. Il 4 dicembre 1508, il papa Giulio II promosse una lega contro Venezia, detta poi di Cambrai e nella primavera del 1509 si riprese a combattere.
L’Aviano fu sconfitto il 14 maggio 1509 a Ghiara d’Adda e Venezia venne posta in una fase critica perché perdette gran parte del territorio in terra ferma. Il 6 giugno anche Trieste e Pordenone furono conquistate. I Veneziani tennero però Gradisca e nel resto del Friuli Patriarcale, dove le popolazioni che facevano capo al potente Antonio Savorgnano le rimasero fedeli. Tutto il territorio occupato dai Veneziani fu lasciato alle scorrerie delle soldatesche austriache, condotte in Friuli dal conte Frangipane, dal Duca di Brunwick, dal Sittich e dal vescovo di Lubiana Ruber, i quali assediarono e saccheggiarono più volte molti villaggi del Friuli, spingendosi fino sotto Treviso e riconquistando tutto il territorio che l’anno prima era stato sottomesso con le armi dai Veneziani.
Il nord Italia nel 1494. (Foto Wikipedia)
Gli imperiali assediarono la fortezza di Gradisca, costruita da Venezia sull’Isonzo, in un luogo dove fin dall’epoca longobarda sorgeva una fortificazione alle dipendenze del Castello di Farra. Nonostante la potenza imperiale e i bombardamenti ripetuti, la fortezza riuscì a resistere fino al settembre 1511. Quando infine dovette capitolare era ancora forte di quattrocento cavalli e seicento fanti, comandati da Alvise Mocenigo.
Anche per questa fortezza Venezia si adoprò con ogni mezzo per riscattarla, fino a proporre il baratto col territorio di Monfalcone, ma gli Austriaci rifiutarono. Per Venezia fu una grave perdita e il Senato veneto non si rassegnò, tentando appena possibile di riconquistarla. Tuttavia rimase austriaca, tranne per il breve periodo del Regno Italico napoleonico, fino alla fine della I Guerra Mondiale.
Anche l'importante fortezza di Marano venne occupata. A riuscire nell’impresa fu Cristoforo Frangipane, il quale, saputo che per volere del luogotenente, l’energico ed instancabile comandante Nicolò Tiepolo era stato inviato inopportunamente a Venezia, lasciando una guarnigione di pochi uomini, approfittò subito della buona occasione e mosse di buon mattino da Gorizia con 400 cavalli e 600 fanti.
Ebbe però l'aiuto fondamentale del prete Bartolomeo da Mortegliano, il quale era potuto entrare col consenso dell’amico Alessandro Marcello con il pretesto di portare fuori alcuni suoi beni. Questi il 13 dicembre 1513 aprì le porte al Frangipane e gli mise in mano la fortezza. Gli Asburgo intanto intervenirono più volte nelle opere di difesa di Gorizia, che nel 1514 erano già a buon punto e la guerra si protrasse, inasprendosi quasi ad ogni primavera, fino al 1516.
Il 13 agosto 1516 infatti si giunse ad una tregua e a dei patti che presero il nome di trattato di Noyon, che venne riconfermato ad Angres il 1 luglio 1518. Nel 1519 Gorizia ebbe un ospite illustre, Carlo V Re di Spagna, divenuto imperatore e Re di Germania dopo la morte di Massimiliano il 12 gennaio di quell'anno. Fu ospitato nella locanda che oggi viene detta “Casa di Carlo V”. Nel 1520 si diede nuovo impulso alle fortificazioni goriziane nel timore di una ripresma del conflitto, ma ad una vera pace tra Venezia e la Lega si giunse con i capitoli durante la dieta di Worms, il 3 maggio 1521, secondo i quali Venezia avrebbe dovuto restituire a Ferdinando, oltre alla contea Gorizia e l’Istria, in parte già riconquistate dagli Austriaci, il territorio di Gradisca e d’Aquileia e i vari villaggi ivi situati, nonché gli antichi feudi friulani spettanti ai conte di Gorizia.
In pratica non avvenne alcuna restituzione ne da una parte ne dall’altra, restando i contendenti in possesso dei territori che all’atto della stipulazione dei Capitoli tenevano militarmente, e questa sistemazione, nonostante altri tentativi restò immutata fino all’arrivo di Napoleone. Gorizia, dopo un anno d’occupazione veneziana, ritornò in mani asburgiche. Nel 1525 verranno richiesti nuovi fondi per le difese “poiché Gorizia è la chiave della Carinzia, della Carniola e del Carso”. Per tale motivo si raccolsero nuovi fondi da devolversi per due terzi a Gorizia, il resto a Gradisca. Si realizzò anche il Campo delle Milizie (in seguito adibito a piazza d’armi).
Progetto delle mura di Gorizia e pianta della città di Giuseppe Vintana, 1583 (Vienna, Haus-, Hofund Staatsarchiv). (Foto www.dizionariobiograficodeifriulani.it)
Da Cambrai alla fine del Cinquecento
Nel 1533, fu sistemato entro le mura del castello l’Arsenale delle Armi. Poco dopo, sotto la direzione di Girolamo Decio si riprese a migliorare le fortificazioni (1537) e l’anno seguente si chiesero contribuzioni per le opere munite di Gorizia, Gradisca e Marano perché si paventava un attacco dei Turchi nell’Alto Adriatico.
La città cominciava la sua espansione oltre i limiti del fossato, in seguito alla ripresa dell’aumento demografico dopo la diminuzione avvenuta tra il XV e XVI secolo, causata dalle invasioni turche, dalle pestilenze e dalla guerra tra l’Austria e Venezia. Le nuove abitazioni si disponevano a nord del prato del borgo originario, attorno al grande spiazzo destinato a divenire la più grande piazza della città.
Il 2 gennaio 1542 alcuni nobili fecero un colpo di mano espugnando Marano. A Gorizia ci fu subito il sospetto che nell’impresa ci fosse sotto Venezia e perciò furono banditi dalla contea di Gorizia tutti i sudditi veneti e fu vietato ai coloni abitanti nel territorio arciducale di pagare gli affitti ai loro proprietari sudditi veneti.
Durante il 1542 a sovrintendere alle opere difensive del castello di Gorizia troviamo Volfango Spèrito di Gemona ed alla sua morte (1549) Corrado da Udine, Fu in questo periodo che si procedette alla costruzione di palazzi nella parte bassa della città onde sistemarvi vari uffici fino allora funzionanti nel Castello, anche perchè nel Cinquecento i castelli cominciarono a perdere la loro funzione militare.
Nel 1556 per decreto di Ferdinando la giurisdizione della città veniva estesa alle case situate sul prato, fuori Porta del Rastello (Traunik) che erano sorte un poco alla volta formando un borgo a se stante con la Piazza Grande. In quell’occasione il consiglio interno urbano veniva rinforzato da quaranta cittadini di nuova elezione.
Crescendo la popolazione, la lingua italiana e friulana presero una tale superiorità che divennero ben presto, nella contea, il linguaggio dei giudici, degli avvocati e dei notai. Per contenere questa crescita gli Stati Goriziani nel 1566 ordinarono che le cause venissero trattate da avvocati tedeschi e che tutti i documenti fossero scritti in tedesco. Tuttavia il tedesco non si diffuse e la lingua italiana divenne predominante. In quei tempi pochi erano quelli che potevano seguire gli studi, e tra questi solo fra i nobili, la maggior parte del popolo rimaneva lontano dalla cultura e la mancanza d’istruzione rendeva inefficaci le direttive dall’alto volte ad influire sui costumi della cittadinanza.
Nel 1565 l’architetto Pietro Forabosco fu inviato a Gorizia allo scopo d’ispezionare le costruzioni di carattere militare. Le preoccupazioni di nuovi assalti dei Turchi consigliarono la riparazione e l’innalzamento delle mura (1566) e si provvide a costruire depositi di vettovaglie, a rendere efficienti i posti di guardia. A tale scopo Leonardo d’Attems fu nominato “Luogotenente Arciducale delle Guardie”.
Il presidio del Castello fu aumentato di 500 archibugieri. Altri apprestamenti furono approvati dall’arciduca Carlo (1567), altri ancora si eseguirono sotto la direzione dell’architetto Giuseppe Vintana (1570 e 1583). Furono pure prese disposizioni, allo scopo di fornire soldati esperti da mettere a guardia delle porte della città, in sostituzione di “servi, sarti, stallieri” ovvero dei popolani che svolgevano questa corvè.
Nel 1586 fu deciso di fortificare ancor meglio la parte bassa di Gorizia. Eppure, verso la fine del secolo, vista anche la pressione turca sull’impero in quel periodo, si ebbe la sensazione che la cinta muraria non avesse ancora la necessaria consistenza (1591). Inoltre, la creazione della fortezza di Palma da parte della Serenissima, indusse la Sovrana Camera a votare nuovi stanziamenti, destinati al Castello (1594) e, all’inizio del ‘600, alla riparazione dei ponti levatoi.
Monumento equestre della tomba di Pompeo Giustiniani presso la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia. (Foto Wikipedia).
Michiel Jansz. van Mierevelt: ritratto del duca Albrecht von Wallenstein. (Foto Wikipedia).
La guerra di Gradisca
Nella seconda metà del Cinquecento tra Austria e Venezia, entrambe alle prese con i turchi, non si era verificata nessuna ostilità palese, ma rimaneva sempre un attrito continuo, fatto di sospetti, di piccoli soprusi o scaramucce verbali. Ciò era dovuto anche perché i confini fra i due stati non erano mai stati ben delimitati. Questi malumori crebbero, portando nuovamente le due potenze alla guerra, che prese il nome di Guerra di Gradisca.
Saputo che Ferdinando d’Austria raccoglieva milizie in Carniola, Venezia accrebbe quindi il suo presidio nella fortezza che era stata costruita dai veneziani nel 1593 nella bassa friulana per difendersi dalle invasione turche: Palmanova. Questa era una città-fortezza che concretizzava tutte le teorie dell'epoca nel campo della difesa e dello sviluppo urbano. Era considerata all’epoca la più agguerrita d’Europa ed ancora oggi rappresenta un mirabile capolavoro di fusione dell’ingegneria militare e degli ideali rinascimentali. Circondata da una fossa larga fino a 37 metri e lunga tre chilometri, era considerata inespugnabile e ospitò fino a 10.000 soldati, per lo più mercenari, di guarnigione. Vi erano fra essi anche mussulmani.
Intanto a Gorizia nel 1607 si costruirono una torre e una casa al ponte sull’Isonzo e nuove migliorie si arrecarono nel castello, dato che in seguito all’incidente avvenuto nel 1612, col presidio veneto del castello di Mosachenizze (Istria), si aveva la sensazione che la situazione si aggravasse. Le previsioni si avverarono con la guerra di Gradisca.
Nel dicembre 1615 il comando delle truppe veneziane, formate da Olandesi, Grigioni e Sassoni, fu affidato a Pompeo Giustiniani, mentre alla guida degli arciducali fu posto il generale di Croazia Adamo Trautmannsdorf, giunto a Gorizia il 27 dicembre di quell’anno. I Veneziani miravano alla conquista di Gradisca e all’occupazione di Gorizia, caldamente auspicata dai Goriziani come si evince da una lettera inviata al Giustiniani, in cui tra l’altro era scritto: “Goritia antica et chiara et già piena di nobiltà è in mano vostra. Da voi aspetta la sua conservazione et la sua distruzione, la sua vita et la sua morte”.
Dai Veneziani fu posto il campo sui colli di Farra. Da quella posizione potevano minacciare efficacemente sia Gradisca sia Gorizia. Il Trautmannsdorf invece aveva scelto per suo quartier generale la località di Rubbia, fortificandola e mettendola in grado di sostenere qualunque assalto.
Nel campo veneto militavano circa 10.000 fanti e 3.000 cavalli, nell’austriaco tutti i maschi della contea dai 16 ai 60 anni, alcuni reggimenti di fanteria croata e di cavalleria. Numerosi condottieri da una parte e dall’altra, alcuni dei quali poi si distingueranno creandosi un’aureola di gloria militare nella guerra dei trent’anni, come il duca Albrecht von Wallenstein che comandava a Gorizia 200 Valloni a cavallo o il Montecuccoli. Gradisca era difesa dal conte Riccardo di Strassoldo la cui valida e fortunata difesa della fortezza fruttò la baronia e il titolo di colonnello.
All’inizio i Veneziani, usciti il 19 dicembre 1615 in forze da Palmanova, occuparono senza trovare resistenza Cervignano, Aquileia, Castel Porpetto, Maranutto, Mariano, Cormòns, Medea, Romans, Sagrado e Villesse, località passate agli Asburgo dopo le guerre del secolo precedente e si fermarono fortificando alcune alture come quelle di Fogliano, perdendo e riprendendo ripetutamente Lucinico e l’anfiteatro collinoso del Collio, specialmente sul versante prospiciente al fiume tra Piedimonte del Calvario e il Sabotino.
Cercarono di prendere il campo trincerato di Rubbia, ma il tentativo fallì, come fallì la conquista di Gradisca. Quando al comando del Giustiniani successero Giovanni de’ Medici, figlio naturale del Duca Cosimo, e il Duca Erasmo di Nassau, ben presto sorsero dei dissidi e le operazioni, che già prima erano fiacche, mai raggiunsero gli obiettivi stabiliti e non progredirono affatto. Anche Don Baldassarre Maradas y Vicque, che sostituì il Trautmannsdorf, non seppe fare altro che consolidare la sua difesa e soccorrere di quando in quando Gradisca.
La guerra, che si trascinò pigramente fino alla primavera del 1616, ebbe anche questo di caratteristico: i maggiori capi lasciarono la vita sul campo di battaglia. Il Giustiniani sulle colline pressso Gorizia il 10 ottobre 1616 colpito da una palla di moschetto mentre perlustrava il terreno per tentare d’attraversare l’Isonzo; il Trautmannsdorf nelle trincee del campo austriaco di Rubbia in seguito ad un colpo di colubrina; Daniele Antonino, valoroso udinese comandante della cavalleria, cadeva nel 1616 sotto le mura di Gradisca; il triestino Francol, di parte arciducale, cadeva pure nella campagna gradiscana, così come Marcantonio di Manzano.
A Madrid intanto il 28 novembre 1617 si trattava per la pace fra l’Austria e Venezia alla quale era direttamente interessato il Re di Spagna, ma la pace si ebbe solo con la pubblicazione dei patti di Madrid avvenuta il 24 giugno 1618. Così senza che nulla fosse risolto per regolare i confini del Friuli e dell’Istria e l’esercizio della libera navigazione, che erano stati la ragione principale della guerra, si ebbe la pace tra Venezia e l’Austria.
La cessazione delle ostilità, non segnò un’interruzione del processo di rafforzamento di Gorizia, perché si paventavano atti ostili da parte dei Turchi e dei Veneziani, Per tale motivo si compirono altri lavori che assicuravano maggior efficienza al sistema difensivo della città, come nel resto appare nella Pianta di Gorizia del 1649 dovuta a Gasparo Merian.
Il complesso difensivo era davvero imponente per la varietà delle opere e per la meticolosità della loro esecuzione. Altre costruzioni interne facevano da cornice alle poderose mura fortificate ed al largo fossato. Le prigioni del Castello erano fino al 1660 sistemate in alcuni sotterranei attigui ad una fitta serie di camminamenti riservati per provvedere al vettovagliamento in caso d’assedio, ed eventualmente alla ritirata, che poteva effettuarsi in varie direzioni. Una delle misure di cautela fu l’aumento di 50 uomini della guarnigione (1655).
L'imperatore Ferdinando II d'Asburgo.
Cultura ed educazione nella Gorizia del Seicento
Il 16 luglio 1626 da Vienna l’imperatore Ferdinando II d'Asburgo incorporò nel Sacro Romano Impero, come feudo diretto, la contea di Gorizia con tutti i suoi diritti, onori e privilegi, tanto nel foro civile quanto in quello ecclesiastico. Essa divenne in tal modo contea principesca, membro dell’Impero Germanico e ufficialmente tedesca.
Suo figlio e successore, Ferdinando III, il 26 febbraio 1647 vendette a Giovanni Antonio della casa degli Eggemberg la fortezza e il capitanato di Gradisca per 315.000 fiorini e creò in quell’occasione una seconda contea principesca, con diritto a prendere parte alla diete dell’impero. Gli Eggemberg non risedettero mai a Gradisca e governarono per mezzo di rappresentanti. La casa si estinse nel 1717.
Contemporaneamente alla guerra e alle questioni difensive a Gorizia si posero diversi problemi educativi e culturali.
Nel 1615 giunsero a Gorizia i Gesuiti, un arrivo dovuto alla profonda crisi religiosa e spirituale del clero e della popolazione locale, sensibile anch’essa all’influenza del luteranesimo, che in questo periodo si diffondeva in Europa e che anche nel Goriziano trovò terreno favorevole, dato che tutto il territorio era privo d’una guida che provvedesse ai bisogni spirituali e religiosi d’un clero in cui ignoranza e corruzione serpeggiavano.
La scelta dei Gesuiti della città di Gorizia fu una questione politica, in quanto essendo stati cacciati nel 1606 da Venezia vollero creare a Gorizia un grande istituto d’attrazione della gioventù studiosa, non solo per la città isontina ma anche per il basso Friuli. Provenivano da Graz, dove già nel 1517 avevano fondato un istituto, contribuirono non poco con la loro attività scolastica al miglioramento e all’elevazione dei costumi.
Essi furono i fondatori delle scuole e dell’istruzione umanistica per ciò come scrive il Morelli: “Le vere scuole pubbliche a Gorizia iniziarono con i Gesuiti”. Le loro scuole erano del tutto gratuite ed aperte al povero e al ricco, perciò l’istruzione fu aperta a tutti, anche se la maggior parte degli studenti furono chiaramente di provenienza nobile. L’attività scolastica vera e propria iniziò nel 1620, in quanto fino al febbraio 1618 essi furono impegnati come cappellani militari nelle Guerre Gradiscane.
Fu istituito un ginnasio con un corso umanistico che in seguito si sviluppò progressivamente fino a quando nel 1659, fu istituito anche un corso filosofico. Più tardi, accanto a questi corsi di morale e filosofia, nel 1723 fu istituito un corso di diritto canonico e nel 1745 quello di matematica. Nel periodo 1670-1730 si ebbero una media di cinquecento alunni di cui 380 di scuole umanistiche. Nell’ultimo trentennio d’attività ci fu una media di 150 alunni.
L’ignoranza regnava sovrana non solo tra la popolazione ma anche fra il clero e negli istituti monastici. Perciò si rese necessario aprire una casa per l’istruzione di chi si avviava al sacerdozio. I Gesuiti nel 1624 ne aprirono una accogliendo gratuitamente 12 studenti poveri. Nel 1629 grazie alla munificenza del conte Giovanni Battista Werdenberg, cancelliere aulico della corte di Vienna, nato a Gorizia e sposo della contessa Caterina Coronini, il rettore del Collegio trovò i fondi sufficienti per continuare l’opera intrapresa.
Infatti, il conte per legare il suo nome a questa fondazione lasciò la sua casa e 22.000 fiorini, per l’adattamento e per il mantenimento perpetuo di 24 alunni poveri. Dopo che i Gesuiti furono allontanati nel 1773, la nuova struttura scolastica con nuovo ginnasio retto dai padri Scolopi ebbe risultati deludenti: da 500 alunni si passò a 119. Il governo austriaco cercò d’integrare la cultura goriziana con quella germanica piuttosto forzosamente e dovrà passare quasi un secolo perché la lingua italiana ritorni lingua d’insegnamento almeno nelle elementari.
Stemma della Contea di Gorizia e Gradisca (Hugo Gerard Ströhl). (Foto Wikipedia).
La seconda metà del Seicento
Dopo un periodo di stasi dovuto alle Guerre Gradiscane, la città riprese la sua espansione verso settentrione lungo la strada per il Veneto e soprattutto lungo quella per la Carinzia, dove l’abitato raggiunto il torrente Corno, si sviluppava anche verso est tra questo e il colle del Castello, costituendo la Braida Vaccana.
Si veniva così formando, intono alla metà del 1600, una nuova area abitata, contrapposta alla zona racchiusa dal fossato e al Castello col suo borgo in posizione sempre più periferica rispetto alla città. Tra i due nuclei di nuovo e d’antico si estendeva l’ampia Piazza Grande, di forma triangolare, fiancheggiata da una fila continua di costruzioni sul lato ai piedi del colle, dalla chiesa, del Collegio dei Gesuiti e da pochi altri edifici sul lato opposto.
Al Collegio dei Gesuiti era annessa la chiesa di S. Ignazio iniziata nel 1654 e che divenne funzionate solo nel 1721. Nel secolo XVII fu costruita inoltre la chiesa di S. Antonio Nuovo e quella dei Ss. Vito e Modesto. Quest’ultima fu eretta in Piazzutta, dopo l’istituzione avvenuta nel 1656 dell’Ospedale del frati della Misericordia dell’Ordine di S. Giovanni di Dio. Altri ordini monastici si aggiungevano intanto a quelli già presenti in città; nel 1648 i Carmelitani si stabilirono presso la chiesa di S. Rocco.
Sempre nel ‘600 si iniziò l’espansione della città verso ponente tra la Piazza Grande e il torrente Corno, mentre oltre quest’ultimo si era già formato un centro minore, Borgo Piazzutta, lungo la strada per il Veneto ed intorno ad una piazza anch’essa triangolare. Tutta questa fase dello sviluppo di Gorizia fu caratterizzata dunque dalla preminenza del fattore stradale. Verso la fine del XVII secolo furono riammessi in città gli ebrei che nel 1554 erano stati esclusi “da tutti gli stati”, probabilmente essi erano piuttosto numerosi a Gorizia e nel 1698 furono riuniti in un ghetto ad ovest della Braida Vaccana, limitato da un muro dalla parte del Corno e chiuso da un cancello verso la città. Nel corso del 1600 era sorto inoltre, a sud della città, il borgo rurale di S. Rocco, che nel secolo successivo fu raggiunto dall’agglomerato.
Le industrie che cominciarono a sorgere e prosperare attirarono dallo stato veneto gran numero d’artigiani, i quali trovarono pronta e ben remunerata occupazione, sia perché esperti e volonterosi lavoratori, sia anche perché favoriti dalla danarosa borghesia Goriziana che si opponeva, quando le fosse possibile, all’immigrazione dell’elemento tedesco a Gorizia. L’accoglienza di sudditi veneti nella contea fu un provvedimento di buona politica come dimostra, tra gli altri, un documento rilasciato dal Principe Gianantonio di Eggemberg nell’ottobre 1647, all’atto d’assumere il governo gradiscano, invitando i forestieri a venire ad abitare promettendo “...che conforme alla condizione delle persone loro... saran consegnasti campi. terreni e luoghi atti a fabbricare abitazioni per loro famiglia”.
Nel Seicento, la popolazione della contea era diminuita a causa sia della guerra sia per le terribili pestilenze del 1638, del 1649 e specialmente quella del 1682, ed anche per le frequenti carestie dovute in gran parte ai difettosi sistemi economici di quei tempi. Si calcola che nella contea ci fossero cinquantottomila abitanti, e forse anche mento, e a Gorizia tre o quattromila.
Verso il 1670 i notabili, preoccupati per la crescente corruzione dei costumi e del pullulare d’eresie, conseguenti al diffuso decadimento morale della gioventù, in pratica per gli stessi motivi che fecero arrivare i Gesuiti, pensano d’istituire un convento per l’educazione femminile e a tale opera si prestarono le goriziane sorelle Bonsi che offrirono gratuitamente uno stabile come primo ospizio.
Nel 1672 giunse a Gorizia la Reverenda Madre Lambertina della nobile famiglia de’ Paolo-Stravius, orsolina professa del convento di Liegi in Fiandra, già fondatrice dei Monasteri di Praga e di Vienna, insieme a quattro consorelle per far sorgere anche qui un Monastero. Le cinque coraggiose donne, non ancora sistemate, accolsero subito sette povere giovani gratuitamente, e iniziarono al costruzione del Monastero di Sant’Orsola in Via delle Monache e poi aprirono la scuola con circa un centinaio di scolare (numero molto cospicuo per i tempi d’allora), questa è la prima scuola femminile italiana in tutto il territorio.
Pianta del Teatro Bandeu del 1780.
Il Settecento
Il XVIII secolo vide una nuova trasformazione di Gorizia, che perdeva via via il suo carattere di fortezza per assumere prevalentemente quello di mercato, incrocio di strade e “ponte”, già presente in passato anche se con funzioni secondarie rispetto a quelle militari. Però per quanto riguarda il Castello si badò sempre a mantenerlo fortificato ed inespugnabile.
Venute però meno le esigenze difensive, la grande fossa fu ricoperta e il vecchio borgo si fuse con le aree circostanti di più recente sviluppo e la città. La popolazione aumentò nel corso del secolo da 5400 a 9200 abitanti, e Gorizia si estese gradualmente assumendo una forma allungata lungo le principali direttrici di traffico commerciale.
Nel 1713 il Castello fu assediato da alcune migliaia di Tolminotti e abitanti dell’Altopiano, che volevano protestare per il dazio sul sale e sulle carni. Ma l’ordine fu celermente ristabilito.
Una nuova espansione di Gorizia si ebbe verso occidente per la cresciuta importanza della strada per Trieste, mentre a nord e a nord-ovest essa continuava lungo le strade preesistenti, formando un nuovo borgo oltre il torrente Corno, il Borgo Carinzia. Questo borgo, di case sparse per la campagna, si congiunge al nucleo cittadino mediante il ponte sul torrente Corno, costruito nel 1734.
Intanto sul Corno dove erano sorte, accanto al Palazzo degli Attems e alla fontana del Pacassi alcune case in appendice quasi alle belle abitazioni della Contrada Signorile (l’attuale Via Carducci), quanto nel Borgo Piazzutta, dove la munificenza di Vido del Mestri aveva fatto sorgere un ospedale e un convento, nonché la chiesa di Ss. Vito e Modesto, e sullo Studeniz, altro borgo in cui il marchese Alvarez aveva retto un ricovero per gli orfani (oggi ospedale dei Fatebenefratelli), si costruirono nuove abitazioni.
Nel 1740 sorse il Teatro della Società di Gorizia che per due secoli, fino al 1934, fu luogo d’incontro, aperto a tutti, con musica, lirica e prosa. La sua storia inizia quando Giacomo Bandeu, esattore dei dazi della contea di Gorizia, nel 1740 costruì il primo tetro pubblico a Gorizia. Nel 1779 l’edificio andò distrutto da un incendio. Un altro membro della famiglia Bandeu, Filippo, ottenne l’autorizzazione di costruire un teatro nuovo che fu inaugurato nel 1781. Questo teatro ebbe alterne vicende finché nel 1810 fu costituito il Teatro di Società con statuto speciale. L’interno del teatro era costituito da tre ordini di palchi di proprietà dei soci, sopra i pachi c’era la galleria o loggione per il pubblico. L’area del pianoterra era adibito a platea per il pubblico e fossa armonica per l’orchestra.
Poi nel 1856 fu affrescato dal friulano Rocco Pitacco su disegni del goriziano Raffaele Pich che raffigurava La civiltà europea; nel 1899 fu rinnovato l’affresco del soffitto con l’opera Il trionfo dell’arte di Eugenio Scomparini. Il teatro fu intitolato a Giuseppe Verdi, l’assemblea dei soci, per inspiegabili difficoltà finanziarie, ne decise vendita a un gruppo di cittadini i quali malauguratamente attuarono il progetto di demolizione della parte interna del teatro per ricavarne l’attuale sala, recentemente ristrutturata. Scompariva così un teatro settecentesco per il quale la Gorizia di quel tempo andava giustamente fiera.
Il Magistrato civico, subentrato al Consiglio del gastaldo in conseguenza delle riforme teresiane, acquistò il diritto parziale di giurisdizione pagando un congruo premio in denaro alla camera imperiale, cui quelle terre appartenevano.
Verso la metà del 1750 si gettarono le basi d’una nuova contrada, quella dei Macelli (oggi Via Morelli) così chiamata perché vi sorgeva il nuovo macello. Con questi ingrandimenti alla fine del Settecento Gorizia aveva raggiunto un’estensione rilevante e un numero d’abitanti ragguardevole.
Nello stesso tempo furono selciate le vie cittadine e si provvide a portare l’acqua in città da Montecorona, mediante un acquedotto che alimentava le due fontane in Piazza Grande e in Piazza del Corno (attuale Piazza de Amicis), mentre prima d’allora ci si serviva di pozzi.
In questo periodo si ha notizia che a Gorizia esistevano 4 farmacie: All’Orso Nero, nel Traunik (poi Piazza Grande, ora Piazza della Vittoria) aperta intorno al 1650; Al Moro in Via Carducci; All’Orso Bianco, nel odierno Corso Italia; Ai Due Mori in Via Rastello. Inoltre sappiamo che nel convento delle Clarisse esisteva una farmacia che fu incorporata a quella del Moro quando l’Ordine fu soppresso a Gorizia nel 1783.
Due fabbriche erano note ed attive a Gorizia nel sec. XVIII, quella di Pietro Brautz aperta nel 1783, che fu la prima fabbrica goriziana di maioliche ed era sita a Salcano vicino alla parrocchiale. La sua attività durò una trentina d’anni. Va notato che quando nel 1887 in Palazzo Attems si tenne la Prima Esposizione Artistica Goriziana, L. C. Ippaviz scriveva nel catalogo: “...non v’è famiglia patrizia o borghese di qualche importanza, che non possegga i graziosi cestellini, piatti, le bianche figurine, chicchere ecc. uscite da queste fabbriche compaesane”.
Marco Foglietti nato a Treviso nel 1764 che aveva cambiato così il nome da Folgetta, era pittore di maiolica presso la fabbrica Brautz, nel 1794 chiese d’essere ammesso alla cittadinanza di Gorizia, e subito aprì una “Fabbrica di Majolica” a Gorizia in Borgo Italia 1.
Dopo cento anni d’insegnamento, la Scuola delle Orsoline, per il loro costante ed intenso lavoro ricevette nel 1775 il grande riconoscimento di “Caposcuola di Gorizia” e l’insegnamento in quella scuola è reso obbligatorio con diritto a esami pubblici. La scuola era talmente nota che persino l’imperatore Giuseppe andò a visitarla.
Il Capitano era il capo della contea per tutti gli affari politici, mentre all’amministrazione presiedevano gli Stati Provinciali, costituiti dalla nobiltà e dai rappresentanti del clero. Gli Stati erano sorti, non si sa bene come, già al tempo dei conti, ma s’erano rafforzati, diventando dei veri padroni della provincia, specialmente dopo il 1500.
Martin van Meytens: L'imperatrice Maria Teresa d'Austria. Olio su tela, 1759, conservato presso l'Accademia di belle arti di Vienna. (Foto Wikipedia).
La nobiltà aveva tra il ‘500 e ‘600 acquistato una enorme influenza nella vita della contea, perché un po’ alla volta, per via di concessioni giurisdizionali aveva esteso il suo dominio su tutto il territorio goriziano. Queste signorie private, che sfruttavano spesso esosamente i contadini i quali più volte sprezzanti del pericolo si ribellarono (come nella già citata rivolta dei Tolminotti del 1713), erano dapprima numerosissime, ma furono ridotte a diciassette e indi soppresse nel 1811.
Fino a tutto il Seicento, il commercio nella città di Gorizia e nella contea non era gran cosa, preminenti erano quelle dell’usura e d’accaparramenti di granaglie per rivenderle al momento opportuno. Con il regno di Carlo IV (12-10-1711 - † 20-10-1740) si aprì una nuova era per l’Austria e cambiarono anche i rapporti commerciali ed industriali.
Le disposizioni da lui prese, furono poi proseguite da Maria Teresa e da Giuseppe II. Fu istituita una Giunta di commercio a Graz, a cui dobbiamo il primo filatoio di seta della contea, posto a Farra. La Giunta nel 1731 fu convertita in una Sottointendenza e dopo due anni trasferita a Gorizia, cessò nel 1740. Nel 1756 si eresse un Magistrato di commercio alle dipendenze di Vienna che nel 1764 prese il nome di Consenso del commercio che rimase operante fino all’istituzione delle Camere di Commercio a metà Ottocento.
Gli Statuti goriziani erano stati riformati al principio del sec. XVII, ma solamente nel 1670 se ne fece una nuova edizione in lingua latina col titolo “Costitutiones illustrissimi Comitatus Goritiae”, che fu stampata a Venezia nel 1670, e poi ristampata dagli Schiratti, tipografi di Udine. Ma anche questo aggiornamento delle modificazioni delle disposizioni statutarie s’infittirono e si moltiplicarono tanto che, nei primi decenni del ‘700 vigevano due legislazioni; quella locale e quella del principe, generando nell’amministrazione politica e giudiziaria della contea non poche confusioni. Ci furono nel 1747 le riforme teresiane che separarono l’amministrazione politica da quella giudiziaria. Questo provvedimento durò solo sette anni.
Nel 1754 si diede un nuovo assetto sotto il governo del conte Harrach, che qui fece il primo esperimento d’una nuova riforma statale, impostata poi nelle altre province. Giuseppe II, salito al trono nel 1780 che fu anche più radicale di sua madre Maria Teresa. Senza badare a proteste e diritti mise al bando gli Stati Provinciali e soppresse il Consiglio Capitanale, istituito dal conte Harrach, sottomise Gorizia al governo della Carniola per le questioni riguardanti gli interessi economici della contea ed aggregò al tribunale centrale di Trieste l’amministrazione giudiziaria locale.
Naturalmente Giuseppe II così disponendo si attirò, l’odio della classe nobile e dell’alto clero che non gli risparmiarono noie e dispiaceri d’ogni sorta. Anche le tante congregazioni religiose che erano sorte a Gorizia e nella contea, specialmente nel secolo precedente, soggiacquero alle riforme giuseppiane. Chiuse le loro case, essi dovettero consegnare all’erario i loro patrimoni e soffrire nel vedersi spogliati delle loro rendite.
A tutto questo pose fine Leopoldo II, quando inaspettatamente, nel 1790 dovette assumere il pesante fardello del potere, dopo le minacciose tempeste suscitate da suo fratello nei dieci anni del suo agitato regno. Gli Stati furono reintegrati, il clero riebbe i suoi privilegi e le sue rendite, i conventi nella maggior parete si riaprirono, i governi locali esautorati da Giuseppe ritornarono a galla più forti che mai. Gorizia riebbe così le sue vecchie istituzioni, purché non contrastassero con le riforme teresiane ritenute insopprimibili.
Nel 1774 Gorizia fu sede, come tutte le province austriache d’una scuola di chirurgia e d’ostetricia che rimase aperta fino ai primi dell’Ottocento abilitando parecchi nuovi chirurghi ed ostetriche.
Quando il 21 luglio 1773 papa Clemente XV sciolse la Compagnia di Gesù molti goriziani rimpiansero la perdita della principale istituzione scolastica cittadina che pur con i suoi difetti aveva istruito molti giovani in lingua italiana per 150 anni.
François Gérard: ritratto di Gioacchino Murat. 1811 circa, collezione privata. (Foto Wikipedia).
Il 5 novembre 1775 furono aperte a Gorizia per la prima volta le scuole pubbliche che nei primi mesi furono ospitate nel ex casa dei Gesuiti; siccome nel 1776 si decise di destinare questa casa a caserma, la scuola fu trasferita al Seminario Wendermbergico. Gli insegnanti, dopo l’allontanamento dei Gesuiti erano laici ma nel 1780-81 il Capitano della provincia Francesco Adamo di Lamberg, chiamò i Padri delle Scuole Pie, gli Scolopi, che avevano sostituito i Gesuiti in varie province. Gli Scolopi, chiamati dagli storici anche “Padri Piaristi”, erano seguaci di S. Giuseppe Calasanzio nato nel 1556 a Peralta de Calasanz in Aragona.
Sul tramonto del secolo, il 16 marzo 1797, abbattute le ultime resistenze austriache sul Tagliamento, l’esercito francese avanzò in Friuli. Il 18 prese Udine e il 19 la fortezza di Gradisca, che quasi si arrese senza resistere. Nella notte del 19 marzo l’arciduca Carlo, fratello dell’imperatore e comandante degli Austriaci, si ritirò precipitosamente verso la Carinzia e la Carniola e il pomeriggio del 20 i francesi, comandati dal generale Gioacchino Murat (poi re di Napoli), entrarono a Gorizia. Il 22 arrivo Napoleone Bonaparte che prese alloggio nella casa dei De Grazia, mentre l’esercito si spostava rapidamente verso Postumia, Trieste, e Tarvisio.
Dopo pochi giorni l’irresistibile armata del generale Massena apriva ai francesi in Carinzia la via per la capitale austriaca, che sarebbe caduta certamente in mano al Bonaparte se nel giorno 12 aprile a Leoben non fossero stati conclusi i preliminari di pace che servirono da base nell’ottobre seguente all’iniquo trattato di Campoformido, dove in compenso della perdita della Lombardia, l’Austria riceveva Venezia, il Veneto ed il Friuli.
Già il 26 maggio 1797 gli Austriaci rientrarono a Gorizia, ripristinando i vecchi uffici e sciogliendo il governo provvisorio nominato da Napoleone, che non aveva fatto altro che proteggere i privilegi del patriziato e preservare il paese dalle deleterie conseguenze delle frequentissime requisizioni ordinate senza tregua dai generali francesi.
Jacques-Louis David: Napoleone attraversa il passo del Gran San Bernardo. Olio su tela, 1800. Museo nazionale Châteaux de Malmaison. (Foto Wikipedia).
Ritratto dell'arciduca Giovanni d'Asburgo-Lorena in uniforme durante gli anni delle campagne napoleoniche. (Foto Wikipedia).
L’Ottocento
Nel 1805 l’Austria aveva aderito alla coalizione anglo-russa contro Napoleone e con un esercito di 7.000 uomini al comando dell’arciduca Carlo d'Asburgo-Teschen calava in Italia tra il settembre e l’ottobre, puntando sulla Lombardia francese.
Ma con poca fortuna perché, dopo il disastro della coalizione a Ulma, Napoleone entrava trionfante a Vienna, mentre il generale Massena battuti gli Austriaci a Caldiero occupava Vicenza, Padova, Udine e Gorizia. Con la pace di Presburgo, odierna Bratislava, firmata il 26 dicembre 1805, si poneva fine a questa guerra e i territori concessi agli austriaci coi trattati di Campoformido e Lunecille passavano alla Francia, che il 19 gennaio 1806 l’incorporava nel Regno Italico.
Napoleone teneva occupato anche Monfalcone e la riva destra dell’Isonzo. In seguito alla convenzione di Fontainebleau il 10 ottobre 1807, i primo tornava all’Austria e il secondo veniva annesso al Regno Italico; l’Isonzo dalla foce a Critinizza di Canale era il nuovo confine fra il Reno e i possedimenti austriaci. L’Austria nonostante fosse uscita con numerose perdite da questa guerra, non si rassegnò e radunato un esercito di 300.000 uomini il 9 aprile 1809 incominciò una nuova guerra.
L’arciduca Giovanni, fratello dell’imperatore Francesco II, passava l’Isonzo e brevemente occupava il Friuli, giungendo fino al Piave, ma fu costretto a ritirarsi per non perdere contatto con l’esercito che operava in Germania, pure in ritirata. Il 12 maggio Napoleone occupava nuovamente Vienna e il 16 maggio, agli ordini del viceré Eugenio di Beauharnais, i Francesi rientrarono a Gorizia imponendo alla popolazione una contribuzione d’un milione di franchi che Napoleone nel luglio seguente ridusse a novecentomila.
Il 14 ottobre 1809 fu firmata la pace di Schönbrunn e nello stesso giorno Napoleone emanava il decreto con cui creava le Province Illiriche, di cui facevano parte il Circolo di Gorizia, Trieste con l’Istria e Fiume, il Circolo di Villaco con tutto il territorio posto al di qua della Sava. A capitale fu posta Lubiana, dove giunse come primo governatore il maresciallo Marmot.
Con decreto del 15 aprile 1811 le province furono riformate. Furono divise in sei province civili e una militare: Carniola, Carinzia, Istria, Dalmazia, Ragusa, Croazia civile e Croazia militare. Gorizia, con questa organizzazione passava a far parte della provincia dell’Istria come capoluogo di distretto e posta alle dipendenze di Trieste. Il distretto era così formato: Gorizia (19.382 ab.), Santa Croce (14.082 ab), Vipacco (10.734 ab.), Tolmai (14.643 ab.) Canale (9.472 ab.) Tolmino (18.933 ab.), con una popolazione di circa 90.000 abitanti. Col gennaio 1812 venivano introdotti i codici francesi e le relative procedure.
L’economia ebbe un forte contraccolpo, si svalutarono e poi si abolirono le banconote austriache ed il governatore Bertand impose un prestito forzoso di 180.000 fiorini, oltre a questo numerose erano le requisizioni e varie le tassazioni: Napoleone preparava l’esercito per quella che sarà la disastrosa campagna di Russia e quindi aveva bisogno di denaro, spremendo il più possibile le terre conquistate.
Nel 1813, Napoleone, ritiratosi dalla Russia e prevedendo un attacco simultaneo dai suoi nemici coalizzati, ordinò al viceré Eugenio di difendere i confini delle Province Illiriche ma queste il 17 agosto 1813 furono occupate nonostante la resistenza francese e il viceré e le truppe si ritirarono precipitosamente in Lombardia.
Tornati in possesso della contea e della città di Gorizia, nell’ottobre 1813, gli Austriaci abolirono via via tutte le istituzioni e leggi francesi, reintegrando il vecchio sistema feudale. Fu ricostruito il Circolo di Gorizia, poi ampliato nel 1825 con l’annessione dei distretti di Sesana, Duino, Monfalcone, Monastero, finora spettanti al Circolo di Trieste. Le idee rivoluzionarie francesi e le varie occupazioni avevano portato ad un nuovo sentimento di solidarietà nazionale con le altre regioni italiane che spinse i goriziani a chiedere più libertà e nuove riforme. L'Austria però rispose con una forte repressione, imponendo la lingua tedesca in ogni manifestazione pubblica. In Italia, come in altre parti d'Europa cominciarono le prime insurrezioni contro l’oppressione dei principi stranieri che però vennero represse duramente.
Nel 1848 anche i patrioti goriziani volevano insorgere e seguire l’esempio degli Udinesi, dei Veneziani e dei Milanesi, ma gli Austriaci sconvolti da quanto succedeva rafforzarono enormemente la guarnigione in città impedendo qualunque tentativo.
Il 24 marzo 1848 Carlo Alberto pubblicava il manifesto della guerra e alcuni goriziani, come Francesco Scodnik, Antonio Steffaneo di Carnea, Alessandro Clemencich e Giuseppe Cordon, accorsero ad arruolassi negli eserciti liberatori. Il generale Laval Nugent von Westmeath si mosse con l’esercito da Gorizia, prese Udine, oltrepassò il Piave e si congiunse con le truppe di Radetzky. In giugno cadevano Vicenza, Padova, Treviso, Palmanova. L’esercito Piemontese fu costretto all’armistizio di Salasco e Garibaldi con i suoi volontari si rifugiò in Svizzera. All’infuori di Venezia, l’Austria era rientrata in possesso di tutte le terre che aveva pochi mesi prima abbandonato.
Nel 1848 nelle scuole la lingua italiana divenne lingua d’insegnamento, come afferma il de Claricini : “[...] esse ripresero nuovo slancio e ben presto i locali divennero angusti, e nel 1856 furono trasferite in locali più ampi e più accoglienti”. Numerose, ben 60, furono anche le scuole popolari in lingua slovena aperte nella provincia di Gorizia tra il 1820 e il 1868”.
Dopo i fatti della Prima Guerra d’Indipendenza, gli irredentisti Goriziani furono scoraggiati. La città viveva in un isolamento desolante. Un coraggioso Carlo Favetti il 1 gennaio 1850 incominciò a pubblicare il Giornale di Gorizia, che era una sfida all’Austria. Il suo programma si allacciava a quello di Graziadio Isaia Ascoli ed aveva lo scopo d’educare e nazionalizzare il popolo con l’istituzione di scuole italiane.
Il giornale incontrò subito il favore della popolazione e creò diversi grattacapi alle autorità, che sempre più di frequente lo sequestravano. Il Favetti propugnò in ogni dove l'idea che la patria naturale dei Goriziani era l’Italia. Per tutto l’anno combatté la generosa campagna incurante di pericoli, minacce, e requisizioni. Infine le autorità, su ordine di Radetzky, fecero sopprimere il giornale.
Si ebbero poi le prime condanne contro gli irredentisti. Vi fu chi protestò con molto coraggio in loro difesa, per le condanne troppo dure. Le autorità furono irremovibili, ma i cittadini incominciarono a capire che solo l’unione di forze, d’intendimenti e di numero potevano far cambiare i metodi di governo in un trattamento più civile.
Il 19 dicembre 1851 un’imperiale decreto nominò una commissione a presiedere gli esami presso la Scuola Normale delle Orsoline, del nuovo Corso di Metodica per la preparazione delle maestre elementari. Fu qui che si formarono le prime maestre italiane della contea. Il corso divenne biennale nel 1856 e triennale nel 1869.
Due avvenimenti importanti accaddero dopo la metà del secolo nella città: l’introduzione della ferrovia e il nascere della moderna industria. La linea ferroviaria Vienna-Trieste-Udine (ferrovia meridionale) fu inaugurata il 3 ottobre 1860, fra grandi manifestazioni di giubilo popolare. Si era pensato e progettato anche una linea Lubiana - Val d’Isonzo – Gorizia - Trieste. Ma fu invece prima eseguito il tracciato Villaco-Tarvisio-Pontebba-Udine inaugurata nel 1881. La città si ingrandiva, nel 1850 aveva 10.000 abitanti e nel 1901 raggiunse i 25.432.
A nord della città, le costruzioni si disponevano nelle strade già esistenti convergenti verso il ponte del Torrione (o Piuma) sull’Isonzo. La creazione d’importanti stabilimenti industriali sulle rive del fiume favorirono lo sviluppo di Gorizia a sud-ovest, dove si formò un nuova rete stradale che faceva a capo al nuovo “corso” cittadino (l’attuale Corso Giuseppe Verdi).
Questo in seguito fu congiunto all’ampio viale alberato (ora Corso Italia) che collegava il centro con la stazione della ferrovia meridionale, estendendo così l’abitato anche a sud, e portando alla costruzione di numerosi edifici lungo il viale. Nello stesso tempo, nei pressi di S. Rocco fu costruito un importante complesso ospedaliero.
Con una legge del 18 marzo 1850 furono istituite le Camere di Commercio e quella di Gorizia nacque il 12 agosto dello stresso anno. Fu sempre presieduta da uomini di cultura italiana e fu fautrice della nascita della benemerita Società di Mutuo Soccorso.
La III guerra d'indipendenza del 1866 fu salutata a Gorizia dagli italiani con grandi speranze ed entusiasmi, ma alla fine solo il Friuli occidentale venne unito al Regno d'Italia. Nel 1869 nacque la Società Goriziana di Ginnastica con lo scopo d’educare fisicamente la gioventù; trovò subito grande adesione tra i cittadini e divenne luogo per la diffusione dei sentimenti filo italiani.
Nel 1871 fu fondato il Gabinetto di Lettura che si prefisse l’educazione nazionale dei cittadini mediante conferenze, lezioni, letture e divertimenti. Nel 1876 un gruppo di patrioti si staccò dai liberali e fondò il giornale “Il Goriziano”. Nel 1884 si fondò la Società Politica Unione che riuscì ad attuare il suo piano d’italianità e a lei si deve se Gorizia nel 1900 ebbe nel Consiglio dell’Impero, nella Dieta Provinciale e nella Camera di Commercio, rappresentanti d’indubbia fede italiana.
Visita dell'Imperatore Francesco Giuseppe I.
I primi anni del Novecento
Agli inizi del Novecento, Gorizia assume sempre più importanza, sia per le industrie che per il commercio. L’imperatore Francesco Giuseppe I la visitò il 19 e 20 settembre 1900, una lapide in marmo verde, con epigrafe latina in caratteri di bronzo, quasi del tutto scomparsi, ora nel Lapidario, ricorda il fatto.
Vista l’utilità della ferrovia e desiderando costruire una linea che collegasse Gorizia a Lubiana si incominciò a costruire il tronco Gorizia-Aidussina che fu inaugurato nel 1902, ma il suo prolungamento sino alla capitale slovena non fu mai realizzato.
Nel 1905 fu finalmente portato a termine il progetto Trieste-Villaco passando per la Val d’Isonzo, la cosiddetta ferrovia transalpina che da Salisburgo per Piedicolle Valle del Bacia, e Val d’Isonzo giungeva a Gorizia.
Lo sviluppo ferroviario nel goriziano fu fattore d’incremento nell’economia locale benché altri progetti, che avrebbero sicuramente portato più benefici, come la Gorizia-Cervignano, che doveva inserirsi sulla Trieste-Venezia, abbreviando il percorso di circa 46 km, rimasero inattuati.
Nel 1910, Gorizia, capoluogo della contea di Gorizia e Gradisca contava circa 30.000 abitanti. Sempre in quella data i sudditi italiani che vivevano e lavoravano in città erano circa 1100.
Visita di Francesco Giuseppe.
Gorizia in una cartolina del 1914
La Prima guerra Mondiale
Il 28 luglio 1914 scoppiò la Prima Guerra Mondiale che fu l'inizio per la storia di Gorizia di pagine dolorose. Ci fu un rigido controllo alle frontiere italiane nei primi mesi di guerra, in cui la posizione dell’Italia era ancora incerta. Gli italiani residenti cominciarono ad abbandonare Gorizia in quantità sempre maggiore, sino a raggiungere il culmine alla vigilia dell’intervento italiano. Quelli invece che si trovavano solo per lavoro vennero, solo pochi giorni dopo l’inizio del conflitto, espulsi.
I goriziani richiamati alle armi vennero inviati sui fronti serbo e russo. Una sessantina furono gli arresti di cittadini, per lo più di origine slovena, ritenuti elementi filo serbi e filo russi. Tra questi si ricordano il vice-presidente della Giunta provinciale Aloiz Franko e il giornalista e politico Andrej Gabršček.
Rappresentazione della zona di Gorizia.
La Domenica del Corriere celebra l'ingresso delle truppe italiane a Gorizia il 9 agosto 1916.
Tra gli italiani che lasciarono Gorizia molti furono quelli politicamente coinvolti nelle istanze irredentiste, che volevano evitare di essere richiamati e, in caso di un sempre più probabile intervento italiano contro l’Austria, potersi combattere con il regio esercito. Diversi i casi di ex-combattenti nell’esercito austriaco, fatti prigionieri in Russia ed in seguito arruolatisi nel Corpo di spedizione italiano in Estremo Oriente.
Quando il regno d’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, molti giovani goriziani corsero ad arruolarsi nell‘esercito italiano, consci di poter incorrere nella pena di morte in caso di cattura.
L’Austria, dal canto suo, cercò di inviare i sudditi di nazionalità italiana su fronti diversi da quello italiano, specie in quello della Galizia.
Nei giorni seguenti al 24 maggio 1915, la veloce avanzata delle truppe italiane, dovuta al ritirarsi austriaco su posizioni più difendibili, portò gli italiani a giungere fino all’Isonzo e a fermarsi davanti alla testa di ponte di Gorizia, difesa dalla 58a di fanteria, ai comandi del generale Erwin Zeidler.
Il consiglio comunale fu scolto e l’amministrazione di Gorizia venne affidata al commissario governativo conte Alfredo Dandini. Abbandonarono la città giunta provinciale guidata da mons. Luigi Faidutti e l’arcivescovo mons. Francesco Borgia Sedej. Venne arrestato il podestà Giorgio Bombig e diversi esponenti della borghesia liberale italiana. La città divenne teatro di duri scontri e pesanti bombardamenti che distruggeranno in alcune zone la metà del tessuto urbano.
Gorizia fu obiettivo di un pesante bombardamento italiano nel novembre 1915. Dopo più d’un anno d’aspre lotte, caduti il San Michele e il Sabotino, capisaldi della difesa austriaca, tra l’8 e il 9 agosto 1916, durante la VI battaglia dell’Isonzo, le truppe italiane entrarono a Gorizia, segnando uno dei maggiori successi strategici italiani e tra quelli più ideali nell’immaginario nazionale. La situazione obbligò il nemico ritirarsi sulla linea Monte Santo-San Gabriele-Santa Caterina-San Martino-Naso-Opacchiasella. La popolazione per lo più fuggì dalla città. Un censimento sommario contò la presenza di 2652 civili, di cui 1984 tra donne e bambini.
Gorizia subì poi i pesanti bombardamenti da parte austriaca, soprattutto dai colli del S. Marco, del Gabriele e del Monte Santo. La città venne rioccupata dagli austro-tedeschi con l’offensiva di Caporetto nell’ottobre 1917 fino al 7 novembre 1918, quando nel pomeriggio le truppe italiane giunsero in città. La guerra fece soffrire molto la città e gli abitanti, basti pensare che dei circa 30.000 abitanti di Gorizia ne rimasero solo 3.000. La città ebbe 680 fabbricati distrutti, 2013 danneggiati.
Due figure popolari dell'irredentismo italiano si ricordano in particolare durante questi anni: il fruttivendolo Emilio Cravos, fucilato per i suoi sentimenti d’italianità il 15 novembre 1915 e che, invitato poco prima dell'esecuzione a rivelare i nomi dei suoi compagni, rispose: “No! e femo presto.”; Giovanni Maniacco, giovanissimo italiano, orditore d’una sommossa contro il comando austriaco e condannato alla fucilazione. Morì al grido di “Viva l’Italia”. Gorizia è stata insignita di medaglia d’oro al valor civile.
Corso Giuseppe Verdi a Gorizia in una cartolina del 1944.
Manifestazioni pro-Italia a Gorizia nel 1946 in occasione della visita della commissione alleata
La seconda guerra Mondiale
Il 5 gennaio 1921 Gorizia fu ufficialmente unita all’Italia e nel 1927 fu costituita la nuova provincia di Gorizia, con 126 comuni staccati dalla provincia di Udine, alla quale erano stati aggregati provvisoriamente nel 1923, formando così assieme a quelle di Trieste, Pola e Fiume la regione della Venezia Giulia.
Nel primo dopoguerra, la ricostruzione lasciò sostanzialmente inalterata la fisionomia del centro di Gorizia. Anche il Castello fu ricostruito, mentre nel 1928 tutta l’originaria “terra superiore” subì una “bonifica” per facilitare il traffico a scapito delle casette medioevali che furono demolite, per allargare la strada che conduce in Castello.
Questo fatto portò un’importante sviluppo alla città che pian piano si estendeva ulteriormente, soprattutto in direzione della stazione sud, per le migliorate condizioni stradali della Pianura Friulana. Intorno al 1940 Gorizia era città distinta da una zona centrale addensata ai piedi del colle del Castello e circondata da un’area d’insediamento più sparsa, caratterizzata da costruzioni di due o tre piani inframmezzate da giardini e orti. Essa aveva assunto l’aspetto di città-giardino che conserva tutt’oggi.
La Seconda Guerra Mondiale costituì per Gorizia un nuovo doloroso capitolo della sua storia, con bombardamenti soprattutto nel 1945. in grande stile, con numerose vittime e distruzioni. L’occupazione tedesca oltre ad altre confische, requisì anche la “Villa” delle Orsoline, prima nel settembre 1943 il piano terra e poi nel marzo 1944 tutto lo stabile. per farne un ospedale della Croce Rossa. Le scuole furono sistemate in ambienti di fortuna.
Finita la guerra, Gorizia viene occupata dalle truppe jugoslave quindi da quelle Alleate fino alla metà dell'aprile 1947, quando fu ricongiunta all'Italia. La parte orientale della città e della provincia di Gorizia, con la Stazione Nord, fu ceduta alla Repubblica Slovena di Jugoslavia, andando a formare il grosso centro di Nova Gorica.
Con questa seperazione, l’economia di Gorizia subì inizialmente un notevole squilibrio. Poi si ebbe un rapido passaggio da una struttura agricolo-commerciale a una industriale-artigianale, nel settore tessile, siderurgico, metalmeccanico, alimentare, del legno e dei materiali da costruzione.
Gorizia, piazza della Transalpina, sul confine italo-sloveno. (Foto Wikipedia).
Gorizia dal dopoguerra a oggi
A partire dagli anni Sessanta, con il progressivo normalizzarsi delle relazioni con la Repubblica di Slovenia, tornò a formarsi un settore terziario. La nuova situazione tuttavia non compenensò la menomazione della città, che soffrì nel suo sviluppo urbanistico ed economico.
Il 28 giugno 1991, il giorno della dissoluzione della Jugoslavia, Gorizia fu testimone degli scontri a fuoco, presso il valico della Casa Rossa, tra le guardie di frontiera di Belgrado e la milizia slovena, ma presto la situazione si normalizzò.
Nuove prospettive si sono aperte per la città con l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea e con la conseguente caduta del confine, avvenuta il 21 dicembre 2007. Tra Gorizia e Nova Gorica ormai non si percepisce più il confine e i cittadini si muovono liberamente.
Nel 2025 Gorizia insieme a Nova Gorica sarà capitale europea della cultura.
Cippo confinario nella piazza della Transalpina a Gorizia
• Viaggio in Friuli Venezia Giulia