di Giorgio De Zorzi
Le Origini
Il nome della città di Pordenone deriva da Castrum Portus Naonis, dove Naonis era l’antico nome del fiume Noncello che attraversa il territorio comunale. Per Naonis si è pensato ad una radice preromana ”nau” nel senso di nave.
Le sue origini devono essere ricercate nella località Torre, centro poco distante dalla città. Questo era probabilmente già abitato in epoca preistorica e protostorica e sicuramente in epoca romana. Era posto nei pressi della Via Postumia, che da Oderzo, aggirando la linea dei fontanili, arrivava al Quadruvium, l’attuale Codroipo, che si raccordava poi con la strada per il nord, la Julia Augusta.
Con le ricerche fatte dall’appassionato conte Giuseppe di Ragogna, oltre a numerosi reperti ritrovati furono individuate delle terme romane con pavimenti a mosaico di pasta vitrea, tubature di piombo, rivestimenti di marmo e alabastro. Si sono trovate inoltre tracce delle banchine del porto lunghe parecchi metri. Senza un porto fluviale, infatti, non poteva esistere, in qui tempi, una città come Torre.
Probabilmente questa si trovava sulle rive del fiume che scorreva prima del Noncello, originato dalla risorgive di Cordenòns. Si fa anche l’ipotesi che qui non ci fosse una città, ma una grande villa imperiale. Il nome latino non è stato ritrovato ed il luogo fu certamente distrutto da una delle molteplici invasioni barbariche. I sopravvissuti cercarono rifugio nelle piccole paludi circostanti, create dai fontanili.
In tempi post-imperiali e fino a tutto il medioevo il Friuli, e specie il Pordenonese era una enorme selva. Gli abitanti di Torre si stanziarono sulla sponda destra del Noncello, in un dosso alluvionale alto cique-sei metri che dava la possibilità di ripararsi dalle inondazioni del fiume, fondarono un villaggio isolato, fra l’attuale Duomo e il Castello. Questa popolazione, contrariamente ai Longobardi, che erano contadini e guerrieri, doveva essere rimasta legata alla navigazione e alla pesca, quindi questo risultava uno dei posti migliori della zona per stabilirsi.
Il Basso impero e l’alto medioevo
Il Noncello è un fiume la cui storia può essere ricostruita anche prima della documentata nascita di Pordenone. La sua parte alta ha la tendenza acolmarsi e, senza opportune opere di scavo, i porti vengono sommersi, come accadde per esempio a Torre e come accadde anche a Pordenone. Qui, documenti ci informano che negli ultimi anni del dominio Veneziano, le barche, che anni addietro partivano dal cento cittadino, si dovevano fermare a due chilometri dalla città.
Quando le strade romane erano ormai diventate impraticabili o insicure, per il crollo del vecchio sistema politico-economico, il commercio si svolgeva quasi esclusivamente per acque interne.
Secondo i “Commentari di Aquileia” di Giovanni Candido pubblicati a Venezia nel 1544, il nome di Pordenone appare nel 452. Egli riporta una leggenda secondo cui un condottiero romano di nome Naone arrivò da Aquileia, tracciò un solco e fonda la città.
Molti anni dopo, si ritiene, che il luogo sia divenuto possesso di Enrico I di Baviera per donazione fattagli dal fratello Ottone I imperatore di Germania (952). Per secoli, la parte storicamente più importante di Pordenone fu rappresentata dal Castello, posto su una breve altura sulle destra del fiume, mentre col passare degli anni si sviluppò l’abitato, che venne poi protetto dalle mura.
L’imperatore Enrico II il Santo (Bad Abbach o Hildesheim, 6 maggio 973 o 978 – Grona, 13 luglio 1024), ultimo della dinastia degli Ottoni, intraprese poi un piano ben prestabilito, che era quello di mettere dei tedeschi a capo dei vescovadi dell’Alta Italia. Da qui la scelta di Poppone di Baviera (1019), figlio di Ozzi, come Patriarca di Aquileia, mentre suo fratello Ozzi II fu chiamato conte di Cordenòns e i suoi discendenti conti di Naun (Pordenone).
Il Patriarcato di Aquileia
Nel 1029 il Castello (o corte) di Pordenone disponeva di ampio territorio ed Ottone conte di Naun con Bernardo conte di Carinzia, lasciarono i loro possessi a Ottocaro marchese di Stiria. A questi successe il figlio che portava lo stesso nome e che assunse il titolo di duca di Stiria. Alla sua morte, avvenuta nel 1192 senza che egli avesse discendenti, gli subentrò il suocero Leopoldo V di Bamberga, il Virtuoso, duca di Stiria fino al 1192 e duca d’Austria dal 13 gennaio 1177 fino alla sua morte il 31 ottobre 1194.
Con una bolla da Verona il papa Urbano III il 13 marzo 1186 o 1187 riconosce i vari possedimenti del vescovado di Concordia, tra cui la pieve di Pordenone. Ecclesiasticamente Pordenone spettava alla Cattedra Aquileiese. I Pordenonesi tentarono di sottrarsi a questa dipendenza chiedendo aiuto ai Trevigiani. (1202) che, con le loro schiere, sconfissero il patriarca Pellegrino II quando questi aveva cercato di impossessarsi di Pordenone.
Nonostante le promesse di pace i Pordenonesi non si sentivano sicuri ed allora si legarono di nuovo con potenti feudatari ai danni del Patriarcato. Per riaffermare i propri diritti sul territorio, il patriarca Bertoldo di Andechs conquistò Pordenone, la saccheggiò e la diede alle fiamme, distruggendo le case e il porto. Tuttavia questo non fu sufficiente. Pordenone riuscì a rimettersi in piedi celermente e si sottomise a Treviso (1221).
In base ai patti conclusi, sarebbe dovuta subentrare la Cattedra Aquileiese, ma nuove questioni sorsero a complicare la situazione. Così troviamo il nunzio del duca d’Austria, Federico di Caporiacco, che affida il governo ad Artico di Castello e Tarcento.
Nel 1232 a Pordenone vi soggiornò l’imperatore Federico II della Casa Sveva, dove tenne dieta solenne e dove si presentò, dopo numerosi inviti anche Federico II di Babenberg, duca d’Austria, detto il bellicoso. L’imperatore poi, il 20 maggio, parti per la Puglia; questo fatto dimostra l’importanza che la località stava assumendo.
La seconda metà del Duecento
Sul principio del 1252, il duca d’Austria e Stiria divenne, grazie ad un opportuno matrimonio, figlio del re di Boemia Venceslao II, che divenne re di Polonia l’anno successivo. Questo comportò il passaggio nelle sue proprietà anche della signoria di Pordenone che era retta, a causa dell’estinzione dei Babenberg, dal conte di Gorizia Mainardo. Nel 1257 Ottocaro di Boemia divenne duca di Stiria e, di conseguenza, vassallo del patriarca. Cominciò quindi ad avere un certo interesse per le questioni del Friuli.
Egli fece pace con Filippo re di Ungheria (3 luglio 1272) e perciò sistemò le questioni di diritto dei ducati transalpini di Filippo. Federico di Pinzano, vicario di Filippo in Friuli, però, con la complicità di Giovanni e Volrico di Portis, prese di sorpresa Cividale e la sottomise al suo dominio (25 febbraio 1272) sino alla venuta del nuovo patriarca, cercando di favorire i Prata, i Porcia e i Villalta, suoi alleati.
L’8 maggio 1272 i Friulani fedeli alla chiesa di Aquileia, con alcuni tedeschi di re Ottocaro, ripresero in parte Cividale, sino all’arrivo di Volrico di Durrenholz capitano del re, che il 14 maggio ottenne la resa completa di Cividale. Dopo questo fatto il Capitolo di Aquileia nominò il re di Boemia capitano del Friuli, mentre vicedomino fu nominato Enrico di Werden, che il re creò suo vicario generale in Friuli.
Il I agosto 1273 a Pordenone si tenne un atto importate: i Prata e i Porcia che avevano per breve tempo governato la città, si sottoposero ad un arbitrato con Enrico di Werden. Fu sentenziato che quei nobili dovevano rinunciare nella mani del capitano di Pordenone agli acquisti fatti in quel dominio, ricevendo in compenso quanto avevano speso.
I Prata e i Porcia conservarono il diritto di avere un ponte sul Noncello perché avevano beni da ambo le parti, ma senza creare impedimento alle navi che si recavano a Pordenone ed eccettuati nei tempi di guerra con quei di Pordenone.
Praticamente Ottocaro cacciò dalla città i Porcia e i Castello e si autonominò “Dominus Portusnaonis”, questo titolo fu poi assunto dal suo signore, Rodolfo I di Germania, e mantenuto dai suoi successori sino all’imperatrice Maria Teresa d’Austria (1740-1780). I Porcia però tornarono a godere tanto del Castello quanto della città e ne divennero capitani ereditari.
L’8 maggio 1278 il vescovo di Concordia Volcherio concedette alla chiesa di San Marco a Pordenone di diventare parrocchia, togliendo a Torre la pieve matrice. Già prima dell’anno Mille una cappella dedicata a San Marco esisteva dove ora c’è il duomo.
Nel 1291 Pordenone ebbe un proprio ordinamento comunale. Questa autonomia amministrativa dei pordenonesi favorì lo sviluppo di una cultura urbana. Del Consiglio, inizialmente formato da dieci membri, potevano far parte tutti i cittadini purché meritevoli. Il Consiglio si riuniva nella sala superiore del palazzo della Comunità, che era dove oggi si trova il Municipio (ma senza l’avancorpo costruito due secoli dopo da Pomponio Amalteo), mentre nella loggia sottostante il podestà teneva un pubblico tribunale due volte alla settimana.
La legge non era uguale per tutti, visto che c’era l’obbligo per i giudici tener conto delle qualità personali dell’imputato. Fra l’altro le pene erano diverse a seconda che il delitto fosse compiuto di notte o di giorno.
La pena peggiore era riservata ai traditori e ai cospiratori, i quali venivamo trascinati per terra nella piazza dai cavalli che poi li avrebbero squartati. Gli altri condannati a morte avevano una morte meno crudele a scelta tra: l’impiccagione, se si trattava di sicari o grassatori; la decapitazione se assassini o rapinatori di donne oneste; il rogo che univa nella stessa sorte incendiari, sodomiti, genitori che causavano la morte dei loro bambini, i falsari.
Per gli altri non c’era solo il carcere, che prima era in una cella del campanile del duomo e poi fu trasferito in una torre del Castello (ancora oggi il Castello è un carcere e tutt’altro che comodo) ma pure diverse altre soluzioni. Ai ladri si tagliava la mano, qualche volta il piede e in certi casi si poteva cavare un occhio.
Gli adulteri sorpresi sul fatto si potevano ammazzare, in quanto considerata legittima difesa, purché trovati in casa di notte. Medesima sorte per i ladri pescati sul fatto. I bestemmiatori venivamo semplicemente multati, ma se non avevano soldi, erano messi alla berlina, cioè legati in un’apposita colonna in piazza. Le pene andavano da un giorno per aver bestemmiato Dio o la Madonna, mezza giornata per i santi. Multe di 3 lire e cinque soldi invece per gli insulti al prossimo, dei quali era stato anche redatto un elenco in latino. Multa di 20 soldi per chi gettava acqua sporca o rifiuti dalla finestra, più il risarcimento danni.
Al coprifuoco si chiudevano le osterie e non poteva essere venduto vino. Dopo il suono delle campane si chiudevano le porte della città e chi veniva sorpreso a scalare le mura pagava cinquanta lire se di notte e la meta di giorno.
Lo sviluppo edilizio della città avvenne a fasi alterne, a seconda delle condizioni economiche. Sorsero quindi gli edifici nell’agglomerato urbano, che era la concentrazione del potere economico, per i cittadini che partecipavano al potere, mentre in contrapposizione, c’erano gli emarginati cioè le forze contadine ed artigiane che vivevano dentro e fuori le mura.
Il 23 giugno 1298 Adolfo di Nassau fu privato dell’impero e il 2 luglio fu ucciso da Alberto figlio di Rodolfo d’Asburgo che fu riconosciuto imperatore. Alberto il 21 novembre investì i suoi figli Rodolfo, Federico e Leopoldo dei possedimenti dell’Austria, della Stiria, di quanto possedeva in Carniola e del possesso di Pordenone, e ordinò che tutti dovessero riconoscere come rettori e vicari speciali dell’impero nel Friuli e nell’Istria i fratelli Ottone, Lodovico ed Enrico duchi di Carinzia figli del defunto Mainardo, conte di Gorizia.
Verso la fine del XIII secolo Pordenone incominciò ad assumere l’aspetto di una città medioevale, con il duomo di S. Marco (1265-1305) il palazzo della Comunità (1291-1305), il già nominato Castello e la cinta muraria, tra il Noncello e le due rogge: Codafora e dei Molini.
Il Trecento
Le abitazioni comuni di Pordenone, fino ai primi del Trecento, erano costituite da misere capanne di legno con tetti di paglia poste in strade fangose e strette, una vicina all’altra, con il rischio continuo che si sviluppassero incendi. Memorabile, dopo l’incendio di rappresaglia del patriarca Bertoldo del secolo precedente, fu quello della vigilia di San Bartolomeo, nell’agosto del 1318, quando dopo una grande siccità si sviluppò un incendio inarrestabile che ridusse in cenere gran parte delle case. I pordenonesi però non si persero d’animo e si rimisero nuovamente al lavoro, ricostruiendo però le loro nuove case, sia pubbliche che private, in muratura.
Nel 1340 Pordenone entrò, insieme ai suoi giurisdicenti, nella Lega Friulana contro il patriarca Bertrando. Il novembre 1347 il re di Polonia Ludovico si fermò a Pordenone con 500 cavalli e fu trattato con ogni onore e riguardo. Poi, il 3 dicembre, egli si diresse a Cittadella.
Un altro fatto avvenne il 10 dicembre 1351 quando i nobili militi Enrico di Walsee e Corrado di Auffenstein, con molti signori tedeschi e con Simone di Valvasone furono ospitati a Spilimbergo. Il giorno dopo si recarono a Pordenone e presentarono la loro moneta al capitano di Pordenone, Biachino di Porcia, ma questi non volle accettarla. Poi ritornarono in Austria presso il duca per riferirgli sull’incarico avuto.
Per Biachino però le cose non andarono bene. Il 16 luglio 1352 giunse a Cordenòns, per ordine del duca d’Austria, il milite Weissenek con molti armati ed il 15 ottobre cacciò da Pordenone messer Biachino. Il dominio del luogo con l’abitazione fu dato dal duca a Corrado di Auffenstein.
Era anche questo un indice della nuova politica che il duca d’Austria intendeva condurre, cioè mettere nelle mani dei suoi tedeschi quei possessi che la sua casa aveva o pretendeva di avere in Friuli, come punto di partenza per ulteriori occupazioni.
Alberto II duca d’Austria morì il 20 Luglio 1358 lasciando suoi eredi Rodolfo IV, Alberto II e Leopoldo III. Il giovane Rodolfo era molto ambizioso ed usava dire “che nei suoi stati era papa, vescovo e decano”. Egli pensò di seguire la politica paterna cercando di allargare la sua potenza. ed approfittando della debolezza dello stato patriarcale si aggiudicò i castelli della Carinzia e della Carniola e quelli del Friuli, sapendo di poter contare per l’esecuzione di questo progetto, sul conte di Gorizia il quale, come palatino di Carinzia, era suo feudatario.
Una tregua di tredici anni (scadeva nel 1363) era stata concordata tra il patriarca Nicolò di Lussemburgo e Alberto II. Rodolfo IV si preparava quindi a muovere guerra per quella data allo stato patriarcale. Per finanziare la campagna, fra l’altro, impegnò la città di Pordenone per 8000 ducati d’oro ai Signori di Lisca (Veronesi) ed in seguito ai Signori di Spilimbergo (1362) e ai Boninsegna di Venezia (1364).
Ma non si aspettò la scadenza della tregua e l’11 agosto 1361 il patriarca Lodovico della Torre mandò le sue truppe a danneggiare i signori di Spilimbergo, spingendosi il giorno dopo sino a Barbeano, per bruciarlo. Nella lotta oltre ad alcuni feriti fu ucciso un familiare del patriarca. Le truppe si rifugiarono poi a San Daniele.
Il 14 agosto giunsero a Villanova presso Carpacco 800 armati inviati dal duca Rodolfo ed il 16 attaccarono assieme ai Signori di Spilimbergo, Ragogna, Pordenone, e Prata, la cittadina di S. Daniele, bruciandola. Dopo cinque giorni si diressero verso Turrida dove le cortine di Sedegliano e Gradisca scesero a patti arrendendosi.
Il 29 agosto, Rodolfo e Federico con 4000 cavalieri giunsero a Gorizia ed incominciarono a guerreggiare attaccando Manzano, Buttrio, Rosazzo e altre parti. Troppo lungo sarebbe narrare tutti gli avveniente di queste operazioni guerresche. Ci limitiamo a riportare qui quanto ci racconta un cronista in relazione a Pordenone, visto che nel 1366 Francesco di Savorgnano, capitano di Udine, con un’energica campagna aveva stretto d’assedio Pordenone: “anche la terra di Pordenone era ridotta agli estremi; se non ci fosse stata la venuta del patriarca Marquardo e si fosse invece continuato per un mese ancora si sarebbe arresa alla chiesa d’Aquileia. Alla venuta di lui fu trattata la pace fra i predetti di Pordenone e il Patriarca di Aquileia. Ed in tal modo sotto lo stesso signor Patriarca tutti quelli della Patria rimasero fedeli”.
Il 23 aprile 1366 si radunò a Udine il Parlamento e si tratto “del fatto di questa guerra e massime nell’ordine di seguire del fatto di Pordenone, perché gli uomini vi si dispongano”. Queste parole non sono molto chiare ma è certo che Pordenone rimase in possesso degli austriaci e che il 30 maggio fu conclusa una tregua tra il patriarca e i rappresentanti dei duchi d’Austria ed ognuno tenne quello che possedeva. Furono riaperte le strade per i commerci e i prigionieri liberati. Ogni questione controversa fu rimessa al giudizio dell’imperatore.
Pordenone tornata ai duchi d’Austria, venne impegnata per una grossa somma ai Visconti di Milano (1366) Si effettuarono nuovi baratti ma a Pordenone furono risparmiati i dolori quasi generali durante le furiose lotte all’epoca del patriarca Filippo d’Alençon (1381-1387).
La prima metà del Quattrocento
Pordenone s’ingrandiva e aumentarono i commerci e l’artigianato. Dunque anche qui, come dovunque, “nodari” e “dottori” dentro le mura e lungo l’arteria principale, l’attuale Corso Vittorio Emanuele, fornivano la loro consulenza, mentre alle spalle delle case nobili e fuori delle mura, lanaioli, setaioli (Borgo S. Giovanni), scodellari e bocalari (Borghi S. Giuliano e San. Gregorio), battirame e battiferro (Borgo delle Colonne e alla “Vallona”) lavoravano operosamente.
Nel 1402 capitano di Pordenone era il tedesco Mordex e questi intendeva far valere ai conti di Ragogna proprietari del Castello di Torre, il “giurato” nominato dalla casa d’Austria, per l’amministrazione della giustizia. I conti rifiutarono, perché sarebbe stato un atto di vassallaggio.
Per questo motivo i Pordenonesi assalirono il Castello, gli diedero fuoco, acausa del quale perirono il conte Ragogna, la moglie e i sei figli, mentre due maschi e una femmina poterono salvarsi gettandosi dalla finestra. Furono comunque presi e quanto di prezioso conteneva il maniero divenne preda dei vincitori. Pordenone ottenne il perdono per l’atroce fine riservata ai Ragogna solo dopo lunghe suppliche al pontefice, al patriarca e ai duchi d’Austria.
Per la sua accorta politica Pordenone riuscì ad essere neutrale pure nelle contese durante il patriarcato di Lodovico di Tech e, sebbene nel 1420 il Friuli passasse alla Repubblica di Venezia, la città rimase all’Austria. Vi soggiornò l’imperatore Federico III di Germania con la consorte Eleonora di Portogallo: questo sovrano lasciò in questa occasione, le rendite di Pordenone alla moglie e al cognato Alfonso V re del Portogallo.
In seguito scoppiarono degli attriti interni perché Federico di Castelbarco, che vi era preposto, voleva far praticare una porta nel Castello allo scopo di poter uscire direttamente in campagna, senza aver bisogno di attraversare l’abitato.
Avvennero lotte sanguinose ed il maniero passò per varie mani, finendo poi per restare a Federico di Castelbarco, che vi si era rinchiuso e resisteva. Anzi Federico III gli ordinò di rinforzare Pordenone con nuove mura e torri, anche perché la città antica che si era formata attorno la “contrada maggiore” si stava espandendo con nuovi i borghi come Borgo S. Giorgio (l’attuale Corso Garibaldi). Le nuove mura erano circondate da un fossato, con diciotto torri e quattro porte principali.
Nel 1485 il re Mattia Corvino d’Ungheria tentò di impadronirsi di Pordenone ma Venezia inviò cinquecento lancieri che riuscirono ad allontanarlo.
Federico III finché visse non ebbe contrasti con Venezia. Anzi egli da Trento desiderò passare attraverso gli stati della repubblica e visitare anche il dominio di Pordenone.
Riporta un cronista di Spilimbergo che “il 7 luglio 1489 l’illustrissimo imperatore Federico giunse a Pordenone con trecento cavalieri e vi rimase per circa quaranta giorni. Da Pordenone egli ritornò in Austria”. Le condizioni mutarono quando nel 1493 salì al trono suo figlio Massimiliano, che aveva intenzione di rivendicare i diritti che l’impero pretendeva d’avere sull’Italia ed in particolare sui domini veneziani di terraferma.
L’invasione dei Turchi
Intanto una grave minaccia si profilava all’orizzonte per il Friuli: le invasioni turche. Dopo aver compiuto scorribande nella zona orientale della regione, tra il 1472 e il 1479, i Turchi avevano stipulato una pace ventennale con Venezia.
Nel 1499, alla scadenza del trattato, si ripresentarono puntualmente. Incontrando scarsa resistenza, avevano attraversato, l’Isonzo, per poi dividersi: una parte di loro rimase nella zona mentre e una parte attraversò il Tagliamento, dividendosi ancora in bande. Alcune di queste passarono il Livenza e si spinsero fino a Treviso, mentre altre il 30 settembre si accamparono a Roveredo in Piano presso Pordenone e rimasero fino al 3 ottobre, creando gravi disastri nel circondario.
Porcia non fu toccata perché il conte Giacomo era stato avvisato per tempo dalle sue truppe mandate in esplorazione e si era rinchiuso nel Castello e messo sulla difensiva. Invece ad Aviano, oltre la rovina e all’incendio delle case, delle vigne e di altri beni, caddero tra prigionieri e morti più di duemila persone. Dei villaggi dipendenti dalla comunità di Aviano, S. Martino di Campagna ebbe 340 vittime, S. Leonardo 420. Tanti altri paesi subirono la devastazione e vennero arsi. Pordenone che si riteneva al sicuro, per essere suddito dell’imperatore, subì ugualmente parecchi danni e furono presi molti prigionieri.
Nella notte del 3 e 4 ottobre i Turchi ripassarono in direzione est il Tagliamento, sotto Valvasone. Poiché il fiume era molto grosso per le piogge, sgozzarono gran parte dei prigionieri, specialmente gli uomini e le donne anziane. Il Sanudo parla di un migliaio di disgraziati uccisi così, mentre il Malipiero parla di duemila vittime. Il Priuli invece stima in milleseicento le vittime, compresi coloro che morirono per via.
Preferirono risparmiare i molti fanciulli al disotto dei quattordici anni che avevano rapito nelle varie razzie. Tuttavia, molti di questi perirono nell’attraversamento, assiememe a molti degli stessi Turchi. Ritornarono quindi verso oriente divisi in due schiere
Lungo il percorso bruciarono Pantianicco, dove uccisero gli abitanti e danneggiarono tutti i luoghi vicini. Bruciarono e uccisero anche presso Mortegliano, anche se la maggior parte della popolazione riuscì a rifugiarsi nella cortina e da li a sostenere l’attacco nemico nei giorni 4 e 5 ottobre.
Il 5 ottobre le milizie turche, raggiunti coloro che avevano lasciato sull’Isonzo, ripassarono verso il tramonto il fiume, attraverso l’Istria rientrarono nel loro paese. Dei prigionieri molti riuscirono a fuggire, altri perirono lungo il cammino, altri poterono essere riscattati. Il comandante dei Turchi, pur essendo in buoni rapporti con l’imperatore volle mille ducati per la restituzione dei prigionieri fatti nel Pordenonese. Fu l’ultima volta che i Turchi “corsero la Patria”.
Feudo di Bartolomeo d’Alviano
All’inizio del 1508 Massimiliano I imperatore di Germania e arciduca d’Austria, muoveva guerra alla repubblica di Venezia La prima battaglia avvenne in Cadore presso Pieve, dove le truppe cadorine comandate da Gerolamo ed Antonio Savorgnano ed aiutate da Bartolomeo d’Alviano circondarono la truppe germaniche e le sconfissero pienamente il 2 marzo 1508. Recuperata Pieve con tutto il Cadore, l’Alviano si diresse a Serravate e Conegliano entrando a Sacile il 13 marzo mentre Castelnuovo e Belgrado, antichi possedimenti goriziani si arresero a Venezia.
Egli si impadronì della chiusa di Plezzo ed espugnò il Castello di Cormòns 16 aprile 1508, poi valicando l’Isonzo investi da due lati il Castello di Gorizia il quale non potendo resistere si arrese il 22 aprile. Scrive il Guicciardini: “I Veneziani avuto quel Castello vi fecero subito molte fortificazioni perché fosse come un propugnacolo e un freno ai barbari a spaventarli a passare l’Isonzo...”
Oltre Gorizia i Veneziani fortificarono le chiuse di Plezzo. Poi l’Alviano, con l’aiuto delle galee di Girolamo Contarini, s’impadronì di Duino, di Trieste, e di Fiume; occupò la contea dell’Istria e parte del Carso, dove furono fortificati i castelli. In premio a questa fortunata impresa, l’Alviano fu iscritto alla nobiltà veneziana ed il 15 luglio fu investito del Castello e della terra di Pordenone tolti al domino austriaco.
Il grande capitano, Bartolomeo d’Alviano “nobile e gentile”, come lo definivano i Veneziani, con Pordenone fu tutto il contrario e, tanto per dimostrare con chi la popolazione avesse a che fare, come prima mossa soppresse il commercio di sale con Trieste, per poi instaurare un regime di tirannia.
Una tregua di tre anni fu conclusa l’11 giugno fra Massimiliano e Venezia. I prigionieri, da ambo le parti furono liberati, e anche Bartolomeo d’Alviano ritornò a Venezia; ma essa non impedì che si scatenasse contro la Serenissima una grande tempesta. La Francia ingelosita dei successi veneziani fece lega con Massimiliano alla quale parteciparono anche la Spagna tramite il regno di Napoli, alcuni principi italiani e specialmente papa Giulio II per il recupero delle città della Romagna. Tutti questi soggetti si riunirono nella lega di Cambrai il 4 dicembre 1508.
Il 14 maggio 1509 l’Alviano fu sconfitto a Giara d’Adda e preso prigioniero dai Francesi. Venezia si trovò in una posizione molto critica, perdendo gran parte dei suoi domini in terraferma, comprese Trieste e Pordenone (6 giugno 1509). I Veneziani però resistettero a Gradisca e nel Friuli patriarcale, dove le popolazioni comandate dal potente Antonio Savorgnano rimasero fedeli.
Il 20 luglio 1509 Pordenone fu costretta ad arrendersi nuovamente a Venezia col patto però di non ricadere sotto il dominio dell’Alviano. Nel 1511 vi si insediò il duca di Braunschweig, le schiere di S. Marco ripartirono per Venezia per lasciare posto agli Imperiali che vi posero un presidio (1514). Il 25 marzo 1514 l’Alviano con 2000 cavalieri e 3000 fanti sconfisse e fece prigioniero il capitano austriaco Risano (Rich) presso Sacile, e riprese il suo feudo di Pordenone.
Per vendicarsi dei Pordenonesi, che poche settimane prima s’erano arresi ai Frangipane, abbandonò prima la città al saccheggio dei suoi soldati, per poi farvi ritorno da padrone.
Castigò pesantemente i suoi sudditi, aumentò le tasse ed abolì gli Statuti Municipali. Nella battaglia di Marginano nel 1515 l’Alviano morì. Gli succedette, sotto la reggenza della madre, suo figlio Livio soprannominato “Chiapin”, forse in riferimento ai pessimi costumi di suo padre. Essi non furono dei tiranni, sotto di loro si sviluppò l’industria della lana e nel 1529 tornano persino le libertà civili. Livio mori a soli 23 anni senza eredi e il feudo ritornò a Venezia. Nel 1537, la “speciale” indipendenza pordenonese finì.
Il governo veneziano nel Cinquecento e Seicento
In forza di un decreto del 1553, Pordenone venne separata dalla Patria del Friuli e posta sotto le dirette dipendenze della Signoria veneziana. Per tale motivo non figurò nel Parlamento Friulano e segui le sorti del Veneto.
L’inserimento della città in un vasto complesso politico-economico unitario e le condizioni di maggior sicurezza favorirono lo sviluppo economico e demografico. La prima attività artigiana che si introdusse a Pordenone fu l’arte della lana. Memorie del 1430 parlano di telai di Gasparino lanaiolo proveniente da Olzate di Como e di Francesco Distaiuti, oriundo di Ghirano.
Ma pare che questi artieri provenissero gran parte dalla Bosnia ed abitassero in quelle case esistenti in una località chiamata “Bossina”. È accertata l’esistenza di una confraternita della lana con altare proprio nella chiesa di S. Marco, e avente come protettore S. Biagio. Uno statuto compilato tra il 1516 e il 1529, sotto la reggenza della vedova d’Alviano, conteneva 67 articoli con le norme da eseguirsi nella lavorazione della lana, a cui attendevano operai distinti in “petenadori, scartezini, vergazini, cimolini”. Come a Udine, il Consiglio comunale si riservava la nomina di tre Deputati all’arte della lana per la sorveglianza sulla lavorazione.
Una confraternita dei fabbri fu istituita nel 1548 ed approvata dal Consiglio della Comunità di Pordenone il 15 aprile 1588, Ne era protettore S. Eligio ed aveva sede nella chiesa di Sant’Antonio. Dopo la partenza dei religiosi dal convento di S. Francesco, questa chiesa fu donata dalla Repubblica veneta alla fraterna dei fabbri di cui facevano parte anche i calderai.
Nel 1453 il capitano austriaco Fraustauner concedeva a Francesco Albertis, veneziano, un fondo nella località detta “Vallona” per costruirvi un edificio che fu poi un famoso battirame e battiferro, dove si lavorava il rame con tanta arte da ricevere commissioni dai più remoti paesi d’Europa e persino dell’Asia. Il grosso maglio in ferro dal peso di 500 libbre trevigiane veniva mosso dalla forza idraulica. Si eseguivano caldaie di grandi dimensioni e grosse lastre per foderare le navi. L’opificio venne chiuso nel 1881.
L’antica cartiera di S. Marco fu costruita nel 1460, presso il ponte Adamo ed Eva, dai fratelli Troilo e Sartorio conti Altan. Essa passo nel 1583 in proprietà della nobile famiglia veneziana degli Ottoboni, che diede nuovo impulso e sviluppo alla fabbrica, la quale esportava soprattutto nel levante nonché in Francia, Spagna Germania e Olanda. Passò poi ad altri proprietari sino a che, dopo quasi cinque secoli di onorata esistenza, venne chiusa nel 1931 per gravi dissesti finanziari.
Fra le altre attività artigianali del Pordenonese tutte assunte a rango industriale nel corso del tempo, annoveriamo l’arte della seta, che ebbe nel Galvani uno sei suoi massimi esponenti, oltre alla tessitura del lino, della canapa, del cotone. Specialmente per quest’ultimo prodotto sorsero importanti manifatture.
Ma il vanto di Pordenone è l’arte della ceramica che, uscita dalle piccole imprese casalinghe, attive da tempo immemorabile, si stabilì poi in alcuni grandi complessi modernamente attrezzati. Nel campo dell’artigianato artistico vanno ricordati Bartolomeo dell’Occhio e la sua bottega d’intagli, che s’inserisce nel bel filone della scultura lignea carnica, ricordando nel secolo XVIII gli intagliatori Pignatelli e de Franceschi.
In conclusione si può affermare che Pordenone, vissuta in relativa tranquillità nel corso di questi secoli, che furono assai turbolenti per il resto della regione, e favorita dalla sua posizione discreta per i traffici unita ad una classe di imprenditori attivi, coraggiosi e moderni, cominciò quel processo di trasformazione che la portò a divenire un importane emporio sostenuto da attività che muovevano i primi passi dalla realtà artigianale verso quella industriale di notevoli dimensioni.
Il Settecento
Sotto la Serenissima, a fianco a quella economica, vi fu anche una notevole fioritura artistica e culturale. La vita di Pordenone nel settecento è narrata in una gustosissima cronaca di Giovanni Battista Pomo, che Pieraldo Marasi riporta: “Nella città di allora si svolgevano traffici, gran passaggio di compagnie armate, arrivi e partenze dal porto sul Noncello di imbarcazioni da e per Venezia, grandi banchetti con dovizia di vivande di ogni specie, incontri tra teste coronate e personaggi illustri con i loro variopinti seguiti, duelli, burle.
Cronaca nera e rosa: ma sempre vita, una gran vita insopprimibile. Ecco un piccolo esempio dimostrativo che il cronista riporta. Il 31 marzo 1738 Pordenone (poco più di un grosso borgo contadino) venne letteralmente invasa da centinaia e centinaia di “foresti” d’ogni rango. principi, ambasciatori, cavalieri, commissari, ispettori, palafrenieri, cuochi, portantini, staffette, messi, monsignori, badesse, contesse, damigelle, reggimoccolo, ciambellani ecc.
Era di transito e si fermava per una sola notte la regina Maria Amalia, figlia del duca di Sassonia e re di Polonia sposata a Dresda per procura all’infante di Spagna: don Carlo re di Napoli e di Sicilia. S’incrociavano a Pordenone linguaggi più diversi, i dialetti più incomprensibili, mentre è facile supporre la babele di ordini e contrordini che esplodevano nelle strade lungo il reale passaggio.
Bisognava dare alla potente regina — piuttosto belloccia e simpatica — un’ospitalità degna di lei, garantendole un ferreo servizio d’ordine. — facile immaginare quanti problemi — non solo logistici — provocò la venuta di Maria Amalia. Chissà quanti ladri, borseggiatori, spie, potevano aggirarsi tra le persone del seguito e delle due compagnie di “Fanti Italiani del Reggimento Napoleon” spedito da Venezia, chissà quante sbronze nelle osterie della città, potevano accendere schiamazzi e liti. Eppure ce lo assicura il giornalista d’allora: “il tutto segui con buona regola e buona disposizione senza disordine alcune quello che è da considerare, senza alcuna confusione da parte alcuna”; anche se la maggioranza dei pordenonesi — per la curiosità o per aver ceduto il proprio letto a un ospite — passò la notte in piedi passeggiando e chiacchierando. Evidentemente non fu solo una prova di efficienza organizzativa, ma di maturità civile. Ecco, in questo modo di vivere, in questo stile è riconoscibile Pordenone”.
Verso la meta del secolo XVIII apparve a Pordenone il gioco del pallone, gioco che aveva appassionato alcuni nobili pordenonesi i quali, dopo un periodo di allenamento allestirono degli incontri in un campo definito: “molto comodo e de’ migliori”. Infatti, a loro spese avevano adattato e livellato piazza della Motta, portando un centinaio di carri di sabbia, fecero togliere le grondaie che sporgevano in due palazzi, ed un poggiolo in pietra che poteva essere d’intralcio al gioco. Non si deve credere che il gioco del pallone sia quello odierno. Il primo incontro avvenne il 25 giugno 1745 quando s’incontrò la squadra composta dal conte Massimiliano di Valvasone, dal conte Giuseppe Beltrame e dai cugini Moro tutti di Valvasone, contro i quattro pordenonesi: il nobile Michele Mantica, Marco Scotti, Giacomo Antonio Poletti e Antonio Valle. Dopo due ore continue di gioco questi ultimi risultarono vincitori di trentacinque punti. Da allora in poi si svolsero altre partite e questa passione duro fino al 1760.
Il periodo napoleonico
La grande armata di Napoleone nel 1797 stava terminando la campagna d’Italia. La Repubblica veneta era alla fine ed i Francesi occuparono il Friuli. Cominciarono le depredazioni francesi. Non c’è luogo in mezza Europa dove Napoleone non abbia dormito, e non c’è museo che non abbia il letto, opportunamente sgangherato, dove la guida annuncia con sussiego: “Qui ha dormito Napoleone!”.
Anche a Pordenone quindi Napoleone dormì e precisamente in casa dei conti Cattaneo nella Contrada Grande, oggi Corso Vittorio Emanuele 41. Il generale Bernadotte nel maggio 1797 fece demolire i leoni veneziani che abbellivano le porte della città: Furlana, Trevisana, del Castello.
Il 17 ottobre 1797 a Villa Manin di Passariano fu firmato l’iniquo trattato di Campoformido: Pordenone fu con tutto il Veneto e il Friuli data all’Austria. Il 13 gennaio 1798, dopo quasi tre secoli, ritornano a Pordenone gli Austriaci. Sfilarono per le strade della città a passo di parata sotto il comando del feldmaresciallo luogotenente principe Enrico di Reus-Plaunen, mentre il vescovo di Concordia, Giuseppe Maria Bressa, lo aspettava in Duomo per il solenne Te Deum di ringraziamento.
I Pordenonesi vissero un giorno di festa, la città era tutta illuminata e si aveva molta fiducia nel ritorno dei vecchi padroni, forse alimentata dallo stile degli ultimi arrivati. Ma la comparsa austriaca fu breve. Dopo la battaglia di Marengo nel 1800-1801, Pordenone rimane nel mezzo, nella zona neutra dell’armistizio tra il Tagliamento e il Piave, e dovette provvedere e pagare le spese di vettovagliamento delle truppe francesi. Dopo la pace di Luneville, a Pordenone per breve tempo si riaffermò il governo austriaco.
In questo periodo si chiede ai padroni di ripristinare la navigazione del Noncello fino alla città, ma nel 1803 l’ultimo gastaldo Vincenzo Calligaris scioglie l’antica corporazione dei marinai: termina così una tradizione durata quasi mille anni, riaprendo però per la città una nuova era di commerci terrestri.
Ritornati nuovamente i francesi nel 1805, con il Regno Italico fanno di Pordenone capoluogo del “Distretto del Noncello”, ma per breve tempo perché la città dovette accontentarsi poi di essere, nell’ordinamento napoleonico, solo sottoprefettura. Per un paio di mesi nel 1809 ritornò l’aquila asburgica, quando Eugenio Beauharnais fu sconfitto nella battaglia di Fontanafredda. Napoleone ripristinò le cose con la vittoria di Wagram. Nel 1813, dopo la battaglia di Lipsia i francesi se ne andarono definitivamente e tornano gli Austriaci.
Ritorna l’Austria
Nel medioevo Pordenone aveva una forma triangolare con la base parallela al Noncello da Porta Castello a Porta Furlana e il vertice a Porta Bossina o Trevigiana.
Durante il breve periodo della loro occupazione del Friuli i Francesi progettarono la strada postale Pordenone-Udine che fu realizzata nel 1821 dagli Austriaci. Il tracciato di questa strada fu violentemente criticato dai commercianti pordenonesi che volevano che passasse nel centro storico, ma prevalse, come in fondo era scontato l’idea austriaca.
Questo portò il primo sconvolgimento urbanistico nella storia di Pordenone. La strada che arrivava da Sacile chiamata anche “strada Eugenia” utilizzò la sede della via principale di Borgo (l’attuale Corso Garibaldi) e, dalla Piazzetta di Sopra (l’attuale Piazza Cavour), lasciando a destra la città, raggiunse, con terra riportata per eliminare gli avvallamenti del terreno, in rettilineo (l’attuale Viale Martelli) il fiume Noncello. Da qui proseguiva verso Udine secondo l’attuale tracciato della Strada Statale 13 Pontebbana.
Con l’apertura di questa strada si resero edificabili tutte le aree adiacenti, generando un’espansione sregolata della città. Furono risanati quartieri degradati ma si compirono anche delle distruzioni assurde come la Porta Furlana e la massiccia torre antistante (1837). In seguito tutta la cerchia delle mura venne abbattuta.
Nasce l’industria
Con l’arrivo della ferrovia, si conclude l’operazione del cambiamento cittadino che vede l’apertura dell’accesso alla Stazione (Via Mazzini). La prima vaporiera giunse da Mestre il 30 aprile 1855. Vi fu una grande festa a Pordenone e un gran ballo al teatro Concordia poi Sociale, inaugurato già nel 1831. Due anni dopo la linea ferroviaria arrivò fino a Casarsa e nel 1860 raggiunse Udine.
Il periodo del dominio asburgico fu caratterizzato da un rilevante impulso economico dal quale il ruolo di attività motrice venne assunto dal settore industriale. Nel 1811 i Galvani, che già avevano le cartiere, rilevarono il vecchio convento di Sant’Antonio, soppresso dalle riforme francesi, per istallare una fabbrica di ceramica. All’inizio si facevano solo scodelle di terracotta, ma dal 1822 si produceva tutto quello che serviva per la cucina. La commercializzazione venne fatta servendosi della rete di vendita delle cartiere. I servizi da tavola vennero venduti anche nei mercati orientali e persino nell’India inglese.
Nei piatti della Galvani si incominciò a servire la pasta Tomadini, impresa che l’intraprendente pioniere Angelo Tomadini di Bertiolo nel 1843 aveva impiantato a Pordenone, in fondo a Corso Vittorio Emanuele, di fronte all’antica trattoria al Gallo, suo primo pastificio.
In questi pochissimi anni si svilupparono impianti produttivi soprattutto per la lavorazione del cotone che garantirono l’occupazione a migliaia di operai, parecchi provenienti da fuori città che diedero quindi incremento all’edilizia.
Il primo opificio di questo tipo viene aperto dalla ditta Fratelli Bebz & Blanch di Trieste, il 6 febbraio 1840, eretto in un terreno incolto a Torre. Sei anni dopo alla filatura ristrutturata ed ingrandita si aggiungeva la tessitura di Rorai Grande, che trattava il semilavorato fornito da Torre.
Si devono tuttavia affrontare grossi problemi di concorrenza sia austriaca che lombarda. Inoltre, la seconda guerra d’indipendenza del 1859 taglia una fetta di commerci, a cui si aggiunge l’incendio distruttivo della fabbrica di Rorai nel 1860. La ditta viene ristrutturata e chiamata “Filatura tessitura e tintoria di cotone di Pordenone”.
Ma ci fu ancora crisi, causa la guerra di secessione americana il cotone veniva comprato in India con notevoli costi e quindi si dovette ridurre l’attività, licenziando parecchi operai.
Con il ritorno all’Italia il cotonificio ha più possibilità perché essendo abolite le tariffe daziarie ha a disposizione il mercato italiano. Nel 1875 arrivarono a Pordenone due austriaci Emilio Vepfer ed Alberto Amman, formidabili concorrenti del cotonificio che fondano una fabbrica ultramoderna a cominciare dallo sfruttamento dell’energia elettrica attraverso le acque.
Si usufruisce delle ruote dello storico Maglio della Vallona, chiuso definitivamente nel 1881, e con turbine e una dinamo si fanno funzionare i nuovissimi macchinari. L’impresa ha successo e un secondo opificio viene costruito a Fiume Veneto. Nel 1893, l’industria rimasta nelle mani di Amman, aumenta l’energia elettrica sfruttando il lago della Burida. Il cotonificio di Torre e Rorai ha invece diverse difficoltà: cambiano i proprietari e poi viene acquistato dal Cotonificio Veneziano che aveva stabilimenti a Venezia e Verona. Nel 1920 assorbirà anche Amman formando cosi un unico grande complesso tessile.
Pordenone italiana
Il 19 luglio 1866, agli ordini del generale Cialdini i soldati italiani entrarono a Pordenone. Il 21 ottobre si votò il plebiscito: voti favorevoli 2035, voti contrari nessuno. I voti della provincia di Udine che comprendeva anche il territorio dell’attuale provincia pordenonese furono 144.988 favorevoli e 36 contrari.
Una delegazione di Pordenone guidata dal giovane ed affermato giurista Pietro Ellero si recò a rendere omaggio al re Vittorio Emanuele II. Egli divenne poi Deputato e Senatore del Regno.
Commissario Regio per il Friuli venne nominato Quintino Sella, il quale favori la nascita della benemerita Società operaia di mutuo soccorso a cui poteva far parte qualunque cittadino maschio da 15 a 50 anni, purché vaccinato e di buona condotta. I promotori assicurarono che essa serviva ad incoraggiare le arti, a promuovere l’industria a cementare la fratellanza.
Nel 1888 si fondò la fabbrica di Birra Momi, diretta concorrente delle Birre Moretti e Dormisch di Udine: arrivava a commercializzare il suo prodotto in Friuli e nel Veneto con dei picchi produttivi all’inizio del secolo successivo che toccarono i 13 mila ettolitri l’anno. Purtroppo nel 1928 per la crisi di una banca locale la Momi chiuse i battenti. Altro evento importante per Pordenone fu l’illuminazione elettrica inaugurata in quello stesso anno. È una delle prime città italiane ad usufruirne.
Il Novecento
Il Novecento italiano si apre con l’assassinio di Umberto I, alla memoria del quale Pordenone rese omaggio intitolandogli un viale della città.
Erano gli anni della “Belle Epoque”, quando i pordenonesi si recavano alla Birreria Momi in Piazza della Motta, dove, in un bel giardino abbellito da un’enorme pergola erano posti dei lunghi tavoli in cui godersi un buon boccale di birra.
Molti secoli dopo quel primo banchiere, l’ebreo Samuele, che nel 1399 ottenne licenza di prestare danari all’interesse di 5 piccoli al mese per ogni lira pordenonese, calcolato come prestatore d’opera e quindi dichiarato “libero da ogni fazione e angheria, il credito a supporto dell’economia comincia a svilupparsi nella zona.
La più antica banca del pordenonese è quella di Pravisdomini, fondata nel 1884 e seguita da quelle di San Giorgio della Richinvelda nel 1891 e da quelle di Valvasone e Azzano Decimo nel 1895. Nel 1896 apre a Spilimbergo la banca privata Tamai.
A Pordenone nasce nel 1904 la Cassa deposi e prestiti S. Giuseppe che verrà incorporata nella Banca Popolare di Pordenone nel 1968. A Torre nel 1905 viene costituita la Cassa operaia agricola. Nel 1911 inizia l’attività la Banca Popolare di Pordenone. Nel 1921 arrivano da Udine la Cassa di Risparmio e la Banca del Friuli. Quest’ultima apre numerosi sportelli nei più importanti paesi della zona. Nel 1930 arriva la Banca Cattolica e nel 1936 la Banca Commerciale.
Pordenone si prepara ad affrontare le sfide del nuovo secolo. Nel 1908 si stabilisce di demolire, ciò che rimane dell’antica porta Bossina o Trevisana. Nel 1910 alla Comina viene aperta la prima scuola in Italia di Piloti di volo: giovani impavidi che divennero autori di gesta eroiche nella prima guerra mondiale. Nel censimento del 1911 la città contava 16.235 abitanti. Nel 1912 s’inaugura la caserma di Cavalleria.
Nel 1914 viene terminato finalmente il campanile del Duomo e arrivano in città anche le autocorriere della Società Servizi Automobilisti di Puppin che collegherà parecchi paesi. In quei periodi furoreggiava il teatro Sociale con i suoi magnifici balli dove piloti e cavalleggeri gareggiavano nell’eleganza. L’aumento demografico accelerato alterò ulteriormente la fisionomia della città gettando le basi per quella attuale. In questa visione di progresso e prosperità irrompono i colpi di pistola che uccidono Francesco Ferdinando e la Belle Epoque.
Prima Guerra Mondiale
Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiara guerra all’Austria-Ungheria, dopo che da quasi un anno le potenze europee si stanno scontrando sui campi di battaglia. Udine diviene la capitale della guerra mentre Pordenone, per la sua posizione, continua la sua vita tranquilla ed i suoi traffici commerciali. Personaggi importanti che la guerra ha portato in Friuli, la visitano, come ad esempio il poeta soldato Gabriele D’Annunzio, ospite del locale re del cotone Amman.
Questa relativa tranquillità viene bruscamente interrotta nell’ottobre del 1917, quando la notizia della rotta di Caporetto giunge in città come un fulmine a ciel sereno. Bisogna distruggere ciò che può servire agli austriaci. I pordenonesi scappano assieme alle truppe cercando, rifugio oltre il Piave. Gli ultimi fuggiaschi all’alba del giorno 5 novembre sentirono dei sordi boati: sono i cotonifici che saltano.
Paolo Gaspardo nella pubblicazione “Pordenone nella Grande Guerra” ed. Soc. Operaia, 1991, riporta il diario degli ultimi drammatici giorni:
Mercoledì 24 ottobre: “La sera del 24 ottobre al teatro Sociale di Pordenone si rappresentava Fra Diavolo di Auber. Fortunato Silvestri ricorda: “un certo mutismo che privava l’ambiente di quel chiassoso vociare che di solito precede ogni spettacolo” e conferma di aver egli stesso provato “un vago senso di tristezza” come un presagio. Stavano arrivando le prime voci sull’esercito in gravi condizioni, con la perdita di Gorizia,. In un primo momento ci fu chi cercò di smentirle, ma con scarso successo, tanto che la città finì per essere avvolta da un generale clima d’incertezza”.
Giovedì 25 ottobre: “Nella giornata giungevano sempre più numerose le voci confuse ed allarmistiche, tanto che un senso di preoccupazione aveva invaso l’intera Pordenone.
Venerdì 26 ottobre: a Visinale di Pasiano era in visita pastorale mons. Isola. Don Celestino Scialbi che era andato a salutarlo, al ritorno apprende dai profughi che giungono da Udine e Cividale la notizia della rotta di Caporetto”.
Sabato 27 ottobre: “Nella mattinata a Pordenone il direttore delle scuole elementari Giovanni Marcolini informò personalmente le varie classi disperse in vari locali di fortuna, sulla sospensione delle lezioni, perché gli edifici servivano alle truppe. Non si può proprio dire che ai ragazzi la notizia sia dispiaciuta: una vacanza a pochi giorni dell’apertura del nuovo anno scolastico non suscitava sentimenti di rammarico, considerando anche che quel sabato era giorno di mercato e per di più c’era lo spettacolo di tutti quei reparti di cavalleria e bersaglieri che passavano per raggiungere il Tagliamento. Diversa naturalmente l’impressione che la notizia suscitò tra gli adulti, anche perché era facile il collegamento con le voci che venivano da oriente circa lo sfondamento del nostro fronte nel Cividalese. Ma per il resto della giornata la vita cittadina non rimase tanto turbata”.
Domenica 28 ottobre: “Comincia a transitare per la città “una turba di fuggiaschi che disordinatamente giungeva a Pordenone da tutto il Friuli orientale” e che sarebbe aumentata sempre di più nei giorni successivi. Sono i treni a portare la prima ondata di questa gente di ogni età e condizione che si ferma alla stazione “illudendosi di trovarsi al sicuro”. Più tardi si vedono arrivare anche famiglie di contadini che spingono veicoli carichi di masserizie e trascinano qualche animale”.
Lunedì 29 ottobre: “Il maltempo imperversa per alcuni giorni la dimensione del dramma agli occhi dei pordenonesi appare in tutta la sua tragicità quando, assieme ai fuggiaschi borghesi, si riversa in città “una truppa disordinata e lacera, priva di ogni arma, e con le impronte del disagio, della disperazione, della fame” I soldati cercano riparo dalla pioggia battente sotto la loggia del Municipio o nei porticati di Corso Vittorio Emanuele.
Ricorda don Scialbi: “in seguito all’ordinanza del generale Cadorna che prescriveva a tutti gli uomini fino a 60 anni di presentarsi a Treviso, decido di partire. Ma essendo già partiti tutti i sacerdoti della città, per consiglio del Comando Militare rimango in città come unico prete””.
Martedì 30 ottobre: “Il numero dei militari in fuga aumenta sempre di più, tanto che “nel corso Vittorio Emanuele ove di notte facevano quartiere per ripararsi dalla procella, ostruivano il passaggio e l’accesso alle abitazioni. In stazione le autorità sequestrano vagoni di carne conservata che erano destina al fronte per distribuire alla folla di profughi affamati”.
Mercoledì 31 ottobre: “Il diario comunale riferisce “Essendosi esauriti fino all’ultimo centesimo i fondi racimolati per il pagamento dei sussidi, alle donne che non hanno potuto riscuoterli si è distribuito farina e pasta della Spaccio Comunale, distribuzione fatta personalmente dal Sindaco, dagli Assessori Pisenti e Rosso e dal Segretario Cavicchi”.
Intanto anche a Pordenone si sentono aumentare i colpi di cannone.
Così tante famiglie che si erano trattenute a Pordenone ancora incerte sul da farsi, dopo l’enorme esplosione (era stato fatto saltare il ponte della Delizia) prepararono i fagotti...
Tra i mille tragici episodi di quella giornata, Ardengo Soffici ne racconta uno particolarmente drammatico accaduto a Spilimbergo: la fucilazione sommaria di sbandati datisi al saccheggio.
Intanto a Pordenone “alle 22 si riceve l’ordine che tutti i ricoverati dell’ospedale e della casa di ricovero vengano trasportati a Novara. Don Scialbi da l’assoluzione a tutti gli ammalati e ricoverati prima della partenza”.
Giovedì I novembre: “In città si registrano anche dei morti per lo scoppio di bombe. Il registro parrocchiale di S. Marco riporta infatti in data 2 novembre i nomi di Guglielmo Marcolin, di Antonio di 15 anni e di Giovanni Sacilotto, di Natale di 14 anni entrambi deceduti il I novembre “per scoppio di bomba” e sepolti nel cimitero cittadino. Forse si trattava di giochi di ragazzi trasformatisi in tragedia come attesta anche il ricordo di Antonio Formiz nella vicina Porcia”.
Venerdì 2 novembre: “Ritorna un magnifico sole”. Per la prima volta il tradizionale omaggio ai defunti viene dimenticato. I cimiteri rimangono deserti e senza fiori. Un manifesto richiama tutti i soldati al di là del Piave “e l’ordine comprendeva anche i borghesi dai 17 ai 60 anni d’età. Pordenone si spopola...”.
Sabato 3 novembre: “Casarsa è sottoposta ad un consistente bombardamento che prelude all’invasione in massa. Ci sono anche numerose vittime...”.
Domenica 4 novembre: “Parte l’ultimo treno verso il Piave carico di profughi, di soldati e egli stessi ferrovieri che abbandonano la linea, poi su cose e uomini rimasti a Pordenone cala “la più nera tristezza...”.
Lunedì 5 novembre: Nelle ultime ore della giornata a Pordenone viene interrotta anche l’energia elettrica e si staccano i telefoni. La città si trovò dunque completamente al buio, ulteriore elemento di terrore per gli abitanti che erano rimasti”.
Martedì 6 novembre: “Alle nove e mezzo si vide apparire una colonna nera”. Si disse che fossero Bosniaci. Mentre la colonna si avvicinava, “si poté constatare che era costituita da classi anziane di fanteria austriaca detta truppa appariva stanca e alquanto male in arnese”. Questi primi soldati austro-ungarici, il cui aspetto muove quasi a compassione, passano dunque tra due ali di folla composta prevalentemente da donne...”.
L’occupazione austriaca dura circa un anno. La città venne saccheggiata e gli abitanti rimasti erano meno della metà. La fame aveva messo i pordenonesi in ginocchio: per un po’ di cibo o di legna si barattava qualunque cosa.
Il peggio poi avvenne nella ritirata dell’occupante, quando gli austriaci vennero sbaragliati a Vittorio Veneto. La loro fame e rabbia si sfoga sulla città, che aveva sempre visto di buon occhio ed amato la casa asburgica, la quale aveva portato la città di Pordenone, tempo addietro ad un ottimo livello industriale e commerciale..
Il 1 novembre 1918 i bersaglieri entrarono in Pordenone trovando negozi saccheggiati, palazzi incendiati, ma anche tutta imbandierata dal tricolore.
Ma terminati i momenti di euforia della vittoria, l’Italia e specialmente il Friuli tutto, si trovò davanti alla cruda realtà, ad un nuovo dramma. Ritornò a casa il soldato-contadino e colui che era stato prigioniero, ma trovò la sua terra incolta e le stalle vuote. Duecentomila capi di bestiame erano stati razziati dal nemico in un anno, distruggendo quasi completamente la pregiata razza pezzata rossa. Gli operai trovarono le fabbriche distrutte.
Ai soldati in guerra era stato promesso, in caso di vittoria, un premio mille lire a testa e la terra ai contadini. Inutile dire che la promessa serviva a resistere. Il Friuli è in ginocchio e migliaia di persone per poter sbarcare il lunario non hanno altra via che quella dell’emigrazione.
Il ventennio fascista
La volonta di ricostruire era ben ferma. Ma le cose andarono a rilento ed incominciarono vivaci dimostrazioni. Poi nel 1920 in città cominciarono gli scontri anche gravi, tra gi aderenti al partito popolare e quelli aderenti al partito socialista. Serrate di negozi, scioperi di dipendenti, degli edili e di altre categorie, il malcontento comune, la disorganizzazione dei servizi, tutto questo, unito alla frustrazione sociale dei reduci, fece nascere un movimento chiamato Blocco Moderato che fu la base di raccolta di chi in seguito confluirà nel fascismo friulano.
A Pordenone, quasi timidamente, questo fece la sua comparsa l’8 novembre 1920, con la fondazione del fascio di combattimento da parte del segretario capitano Leone Patti (un soldato decorato e ferito in guerra) assieme a un centinaio di fascisti della prima ora.
Nel 1920 si svolsero le elezioni amministrative: i popolari vinsero con molti voti. Agostino Candolini fu eletto al vertice della Deputazione Provinciale. I socialisti ne persero molti ma non a Pordenone, dove divenne sindaco l’avv. Guido Rossi. A Udine vinse il Blocco Moderato dell’avv. Piero Pisenti, che non fece invece un buon risultato a Pordenone, sua terra natia. Perse anche il suo primario obiettivo: la provincia.
Dopo queste elezioni, la contrapposizione tra Pordenone “la rossa” e i fascisti udinesi divenne totale. Pisenti e i suoi si videro nel ruolo di diga al bolscevismo friulano e decisero che fosse ora di entrare in azione: non più con manganello e olio di ricino, ma con le armi. Giunsero a dar man forte fascisti dal Veneto e dalla Venezia Giulia.
S’iniziò con scontri sporadici, di “assaggio” a Borgo Meduna e a Sant’Andrea di Pasiano nei giorni precedenti al 10 maggio, quando alle 9.30 entrarono in città armati. L’avv. Rossi chiese invano l’aiuto dell’esercito, i fascisti scorrazzavano per le vie sparando e tirando bombe a mano a casaccio. Una pallottola, forse fascista, colpì il camerata Pio Pischiutta che muori. Udine nel 1925 gli dedicherà una via (l’attuale via Ginnasio Vecchio).
Venne devastata la Camera del Lavoro e lo studio di avvocato del sindaco e dei suoi colleghi. In tutta la città i socialisti fecero suonare le sirene delle fabbriche, si proclamò il sciopero generale, mentre gli scontri si fecero sempre più duri. Un gruppo di una cooperativa di operai che lavorava per il progetto di ripristino del porto, venne assalito e fioccarono grandi tafferugli. Finalmente intervenne la polizia ma invece di prendersela con i fascisti, fece una retata dei maggiori esponenti socialisti. A sera il 4° reggimento Genova cavalleria respinse gli operai pordenonesi che si rifugiarono a Torre, erano circa tremila. Nella notte s’innalzarono barricate.
Alle 10 del giorno dopo i fascisti attaccarono con forze venute nella nottata dell’Emilia, ma gli operai contrattaccarono respingendoli verso Pordenone. Verso l’una al posto della camice nere arrivarono i militari. Vennero mobilitati il 4° Genova Cavalleria, l’8° Fanteria e l’8° Alpini, reggimento composto da giovani friulani di leva. Pezzi di artiglieria da campagna vennero messi in posizione e si minacciò di bombardare Torre. Un comitato operaio venne ascoltato e venne concordata la resa, promettendo che a Torre non sarebbero entrati fascisti.
Gli operai dovevano smantellare le barricate e consegnare le armi entro un’ora. Così fu fatto e le truppe entrarono in paese, ma dietro ad esse c’erano le camice nere, che picchiarono selvaggiamente chiunque capitasse per mano. Vennero arrestati dai carabinieri 44 persone ritenute i principali capi della rivolta. Questi furono portati i carcere passando fra due ali di fascisti che li insultarono e li pestarono. Il tribunale non convalidò l’arresto, però vennero rilasciati solo quando il fermo di polizia fu scaduto. Per questi fatti Pordenone dichiarò dieci giorni di sciopero generale
Ma i fascisti non rinunciarono alla loro vendetta ed il primo luglio il giovane leader comunista Tranquillo Moras, il capo delle resistenza di Torre, venne ammazzato a colpi di pistola in un agguato a Pordenone. Intervenne il Governo che sciolse la giunta socialista sostituendola con un commissario.
Intanto il fascismo prendeva il potere in Italia ed anche Pordenone si adeguò. Il regime ha un occhio di riguardo per la città e favorisce l’industria, che si sviluppò rapidamente, attirando in città numerosa manodopera, tanto da dover approvare nel 1934 un piano regolatore che, come tutti i piani aveva pregi e difetti. Si voleva sventrare l’abitato e cancellare certe antiche case, come ad esempio il Castello, che doveva essere demolito e creare al suo posto un giardino. Per fortuna la Sovraintendenza impose il vincolo. Si realizzò solamente la circonvallazione lungo viale Marconi e Dante. La guerra fermò gli altri progetti.
Anche all’agricoltura, che si trovava nelle stesse condizioni che tanti anni addietro, sconsolatamente, aveva descritto Antonio Zanon, era cioè “totalmente abbandonata dall’ignorante padrone all’ignorante agricoltore, il quale altro non sa che le sciocche tradizioni di un avo ugualmente ignorante”, venne dato un forte impulso. Benefici si ebbero dalle bonifiche e dall’optare per colture estensive in certe zone ed intensive in altre; dall’unire al sistema della rotazione agraria che era fino allora ignorato i concimi chimici, pure ignorati. Fecero la loro comparsa nuove culture come quella del tabacco e della barbabietola e i primi mezzi meccanici.
Per la gente sembra che le cose si mettessero bene, anche se con l’avvento delle sanzioni durante la guerra d’Africa, certe fabbriche, dovettero riconvertirsi. Questo non fermò una grande folla dal radunarsi in piazza XX settembre per festeggiare la vittoria in Etiopia.
Seconda Guerra Mondiale
Appena dopo 5 anni, da quella grande manifestazione di piazza XX Settembre, il 10 giugno 1940 nella stessa piazza una folla enorme ascoltò dalle parole di Mussolini la dichiarazione di guerra, con enorme entusiasmo, probabilmente pensando ad una guerra simile a quella etiopica.
Ben presto ci si accorgerà della differenza. Dopo l’8 settembre, i tedeschi allestirono un loro comando nell’albergo Moderno. L’aeroporto di Aviano diventò base della Luftwaffe. Circa temila uomini validi dai 15 ai 60 anni, nella sola Pordenone vennero inquadrati nella TODT per il lavoro obbligatorio. Le fabbriche di Pordenone cominciarono a produrre per la Germania.
Incominciano i bombardamenti alleati. Il primo fu il 28 gennaio 1944 e da quella data fino all’aprile 1945 si contano ben 43 incursioni sulla città. Prima di questi bombardamenti Pordenone aveva accolto molti sfollati perché si pensava che essendo una piccola città senza importanza strategica non venisse presa in considerazione. Ma la guerra non spesso non fa di questi calcoli e Pordenone, Udine, Gorizia dovettero subire micidiali bombardamenti.
Migliaia di pordenonesi si rifugiano nella campagne per poter sopravvivere. Fra gli edifici distrutti o fortemente danneggiati ci furono il palazzo dei Capitani in corso Vittorio Emanuele, il campanile e la chiesa del Cristo, il collegio Vendramin, il palazzo Silvestri, le case di via del Pordenone e di piazzetta S. Marco, il tribunale, le scuole elementari, l’albergo Toffolon, le case vicine a borgo Colonna, via Cavallotti, la chiesa e il campanile di S. Giorgio, l’albergo Moderno, la caserma cavalleggeri, il collegio Don Bosco, borgo di S. Giacomo, la stazione ferroviaria. In tutto 721 alloggi, 1330 vani distrutti e sotto le macerie 94 morti e 55 feriti.
Molti giovani e meno giovani per scappare dai tedeschi e non finire in Germania nei campi di concentramento, si rifugiarono sui monti, prima in piccoli nuclei poi aderendo alle divisione Garibaldi e la divisione Osoppo che sosterranno una guerra partigiana.
Le colonne partigiane entrarono combattendo a Pordenone il 30 aprile 1945.
Il secondo dopoguerra
A guerra finita i rancori si sopirono, si pensò a ricostruire e si guardo al futuro. Della rinascita di Pordenone sarà testimone la prima Fiera campionaria del 1947.
Pordenone geograficamente avvantaggiata rispetto alle altre zone del Friuli per la vicinanza delle regioni italiane già avanzate economicamente, realizzò nel suo entroterra una grande struttura produttiva. Piccole, medie e grandi industrie si svilupparono a ritmo serrato, soprattutto quelle meccaniche e degli elettrodomestici che hanno cambiato il volto della città nell’odierna Pordenone.
In pochi anni gli abitati da 25.0000 passano a 35.000, Pordenone è tutto un cantiere, per questi nuovi immigrati si costruiscono ben duemila abitazioni per quasi 20.000 vani; 4.000 vani si ricavano dagli edifici dagli edifici ristrutturati, 700 locali per le nuove attività.
Nel 1951 entra in funzione il primo nucleo del Centro Studi, in largo S. Giovanni. Se nel 1953-54 il Cotonificio Veneziano è costretto a licenziare mille operai, le imprese come la Savio, la Scala di Orcenigo, la Safop, la Zanette serramenti passano dalle centinaia alle migliaia di occupati, senza parlare della Zanussi che s’ingrandisce di giorno in giorno.
Nel 1955 l’aeroporto di Aviano diventò base americana e circa tremila tra aviatori e familiari americani vennero ad abitare nella zona. Essi hanno firmato una missione oltremare per tre anni che su domanda potevano diventare quattro. Queste persone servono anch’esse a portare le ultime novità del nuovo continente accrescendo lo sviluppo di nuove mentalità.
Il 28 marzo 1958 il ministro dell’Industria Gava senior viene ad inaugurare la linea della profusione lavatrici della Zanussi. È con orgoglio che Lino Zanussi presentò le cifre dell’azienda, dai due o tre garzoni del 1916 ad una cinquantina di operai nel 1925, ad un centinaio dieci anni dopo, a 250 nel 1946 e ai 1.600 nel 1958, aggiungendo che l’industria si sta affacciando sui mercati stranieri. Lino Zanussi fa dono al ministro del frigorifero n. 1.650.000. Nel 1960 entrarono in produzione i televisori.
Pordenone diventa provincia
Divenire provincia era sempre stata l’aspirazione di Pordenone. Molti furono i tentativi, la richiesta era sempre stata respinta. Finalmente nel 1968 Pordenone divenne la provincia del Friuli occidentale. Questo fatto portò ad una maggiore espansione della città nelle zone limitrofe, che progredirà celermente e che ancora si sta attuano ai giorni nostri.
Il 18 giugno dello stesso anno, in Spagna a San Sebastiano, moriva in un incidente aereo assieme ad alcuni valenti collaboratori, Lino Zanussi a soli quarantotto anni, figlio di Antonio Zanussi fondatore della Rex. Ecco quanto scrive tra l’altro Giuseppe Marchetti nel libro: “Il Friuli Uomini e Tempi”. “Morì alla vigilia degli anni difficili, per il paese e per l’industria, quando la sua aveva raggiunto l’apice. È anche per questo la sua improvvisa scomparsa lasciò il segno: era un nocchiero che conosceva tanto bene la propria imbarcazione da potersi permettere di portarla in acque perigliose, pur valutano i rischi d’impresa. Ed il rischio aveva assunto proporzioni di valore mondiale, ma anche perché all’orizzonte dell’economia nazionale e mondiale si profilavano le nere nubi di una seria crisi economica e finanziaria.
Quanta parte abbia avuto, nella storia recente di Pordenone, l’iniziativa industriale portata avanti con la collaborazione del fratello Guido non è facile da valutare. Non si sbaglia però affermando che essa fu determinante per dare alla città un volto nuovo e per creare quella spinta ascensionale a tutta l’autonomia della Destra Tagliamento che ha portato al riconoscimento della Provincia. Il progresso della Zanussi è parallelo — nel ventennio dal 1950 al 1970 — con il progresso di Pordenone. La città triplica la popolazione mentre l’industria si espande. Lavorano per la Zanussi non soltanto i dipendenti regolarmente assunti, ma anche centinaia di persone occupate in altre piccole e medie aziende la cui produzione è in gran parte assorbita dalla Zanussi. Nel 1960 si inaugurava il grande complesso edilizio che Lino Zanussi fece costruire per ospitarvi gli uffici direzionali e amministrativi sulla strada Pontebbana. Ed era l’anno in cui Pordenone conosceva il boom del suo sviluppo urbano”.
Il primo Consiglio della nuova Provincia s’insedia il 10 agosto 1970, viene eletto presidente l’avv. Danilo Pavan. Numerosi ed impegnativi i programmi: viabilità, edifici scolastici, istituzioni da insediare in città ma soprattutto nella nuova provincia.
Pochi anni dopo nel 1976, il Consiglio Provinciale, presieduto da Giancarlo Rossi, dovette impegnarsi al massimo a causa della grande tragedia che si era abbattuta sul Friuli. il terremoto del 6 maggio e quelli successivi.
Tredici furono i comuni disastrati ed altri 18 compresi Pordenone e Sacile hanno subito notevoli danni.
Nel 1980 Pordenone supera i 50.000 abitanti, ci si accorge che è ora di cambiare rotta perché il colosso Zanussi traballa: nel 1983 la perdita di gestione era di 130 miliardi e l’economia cittadina ne risente. Bisogna abbandonare i sogni di una Pordenone colossal da centomila abitanti ma pensare al postindustriale.
Purtroppo delle fabbriche storiche pordenonesi come, ad esempio la Galvani, il Cotonificio Olcese Veneziano, chiudono. La Zanussi entrerà nel colosso Electrolux, mentre molte aziende superarono la crisi proiettandosi nei mercati con nuove tecnologie e nuove produzioni.
Gli eredi dei navigatori del Noncello si preparano ad affrontare il terzo millennio.
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