Di Giorgio De Zorzi
La polenta è stata la base dell’alimentazione contadina, e quindi praticamnte generale, del nord Italia, per almeno tre secoli. È il piatto che simboleggia il mangiare con la famiglia, l’attività della cucina, il frutto della terra. I più ricordano ancora il profumo della polenta cotta sul fuoco a legna, simbolo di un desinare imminente dopo una giornata di lavoro. O colto durante una breve visita ad una famiglia quando ormai era quasi l’ora di cena. Quello era il profumo stesso della casa e della famiglia.
E così è stata rappresentata in molte opere d’arte: la polenta di grano saraceno che il Manzoni descrive nei promessi sposi bigia, scodellata sulla tafferia di faggio (Cap. 6); la polenta dell’infanzia cantata da David Maria Turoldo; la polenta del film “Tutti a casa” con Alberto Sordi, in cui ognuno partendo dal bordo doveva farsi strada mangiando, per arrivare all'unica salsiccia al centro; la polenta del film Novecento, di Bernardo Bertulocci, quando in una famiglia contadina ognuno strofinava la sua fetta su un’aringa appesa al soffitto.
La realizzazione di impasti di cereali e legumi macinati che poi venivano cotti e mangiati è una pratica antica come l’uomo. I romani, in seguito, usavano fare un “Puls” con il farro. Questo tipo di pietanza rimase in uso in Italia anche per tutto il medioevo fino al rinascimento. In Friuli Venezia Giulia erano diffuse le “Pultes Julianae”.
Fu con la scoperta dell’America, che Cristoforo Colombo importò in Europa il grano che gli indigeni Tainos chiamavano mahis.
Il mais cominciò a diffondersi in Europa attorno al 1525, dopo che in Spagna e Portogallo era già ampiamente coltivato.
Le prime notizie sulla coltivazione del mais e di relative polente in Veneto e Friuli, si hanno già verso il 1550-55, prima di altre regioni, probabilmente favorite nella conoscenza dai commerci veneziani e dall’abbondanza d’acqua di queste regioni. Secondo lo studioso Giovanni Beggio la prima semina si ebbe in Veneto nel 1554, per diffondersi prima nelle zone paludose e poi in tutta la pianura Padana. Si cominciò a chiamarlo Grano Turco, per la consuetudine di definire “turco” tutto ciò che era esotico e strano (anche il tacchino venne definito Gallo Turco o Gallo d’India, da cui il “dindi" friulano).
Una teoria vuole che a Venezia si conoscesse già il mais, proveniente dai territori d’oriente e dalla Turchia, e che venisse impiegato per fare i Zaleti, i tipici biscotti veneziani, ben prima dei viaggi di Cristoforo Colombo. Viaggiatori tedeschi descrissero le pianure dell’Eufrate coltivate a mais. E d’altro canto era conosciuto il Grano Saraceno, che forse era usato al posto del mais, prima che questo fosse coltivato.
Nel XVII secolo quindi si assiste ad un grande sviluppo delle coltivazioni di mais. Diviene via via uno degli elementi principali delle disponibilità alimentari delle classi contadine, rappresentando spesso quello che rimaneva dopo la spartizione con il proprietario, dato che i contratti di mezzadria prevedevano che la parte del padrone fosse data principalmente in frumento.
Nelle varie zone, per fare la polenta, si differenziarono i tipi di farina, andando dal grano saraceno, alla farina di mais gialla e quella bianca, macinate più o meno grosse. Usanze che si sono perpetuate sino ai nostri giorni. In ogni caso è bene che la farina sia fresca e conservata in un luogo asciutto. Gli strumenti invece sono comuni ovunque: paiolo, mestolo, il tagliere o la tafferia.
La tradizione, e anche l’esperienza, insegna che la polenta fatta su un fuoco a legna è sicuramente molto più buona, forse soprattutto per la capacità di evocare i ricordi indelebili per chi li ha provati, di profumi un tempo consueti nelle cucine dei nonni o bisnonni. Tuttavia sappiamo che questo non è sempre possibile, ma anche sui fuochi elettrici o a gas, più comuni nelle nostre case, si può ottenere un ottimo risultato.
Come si fa la polenta? Per fare la polenta non sono necessarie dosi precise. Si mette a bollire dell’acqua a cui si aggiunge un po’ di sale e in proporzione a quanta acqua abbiamo messo, avremo la polenta. Infatti si aggiunge la farina lentamente, a pugni e a pioggia, mescolandola con una frusta, perché non si creino grumi. A seconda poi della consistenza che vogliamo darle, si regolerà la farina. La polenta varia a seconda delle zone e delle pietanze che deve accompagnare. Si può mantenere “molla”, cioè quasi liquida, come si usa in molte zone del Veneto o più consistente, come in Friuli, o assai consistente come nella zona della Carnia. La farina può essere mescolata con un pugno di farina di frumento.
Quando si raggiunge la consistenza voluta, tenendo conto che durante la cottura si asciugherà ancora un po’, si comincia a mescolarla con un bastone di legno con costanza, per quaranta / cinquanta minuti circa. Quando si staccherà bene dalle pareti del paiolo sarà pronta. Volendo si può aggiungere un po’ di latte o anche dell’acqua se risulta troppo dura durante la cottura.
Rovesciata sul tagliere, se consistente, la polenta si può tagliare a fette con un filo di cotone o con uno spago fino.
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